Metropolis-new-tower-of-babelAnna Lombroso per il Simplicissimus

È probabile che per Repubblica, e non solo, l’onestà sia rivoluzionaria e pure l’efficienza, così che possa essere considerata eversiva una metropolitana funzionale, apocalittici dei trasporti di superficie rapidi e non inquinanti, insurrezionali mezzi privati penalizzati in favore di quelli pubblici, frequenti,  sostenibili  e poco costosi.

E francamente sono portata a pensarlo anch’io.. ma considero l’ eventualità di un simile rivolgimento,  remota, almeno quanto vere e proprio sedizioni urbane e sovversioni su scala cittadina,   accese da micce quali le condizioni di vivibilità e qualità sociale,  la riappropriazione di suoli, territori e immobili considerati beni comuni,  come invece sembra ritenere  David Harvey, un pensatore molto di moda ancorché molto legato al secolo breve, recensito l’altro ieri con grande pompa sul tema appunto delle cosiddette città ribelli, convinto che   «la rivoluzione dovrà essere urbana, o non sarà affatto». E che identifica nella città il teatro più appropriato per il cambiamento dove  ipotizza che prosperi  l’humus utile a nutrire i cambiamenti radicali.

Il fatto è che una certa corrente sociologica, più lirica e letteraria che analitica,  ma non solo quella, si compiace di un dualismo manicheo, che colloca da una parte  il potere e i suoi sacerdoti, tutti perversi, rapaci, crudeli, corrotti, dall’altra invece una società civile virtuosa, motivata da alti ideali e dedita al bene comune. E che le sue istanze democratiche declinate in pacifiche espressioni e in domestici afflati di partecipazione siano in grado di produrre il tanto atteso cambiamento, magari con le vesti di un riformismo maturo e pervasivo.

Ci piacerebbe fosse così. Che le piazze e le strade della nostra democrazia si chiamassero Occupy Wall Street, Puerta del Sol, Piazza Syntagma o Gezi Park.  In un certo senso si può davvero concordare che se ci fosse una speranza di partecipazione, di superamento del  malinconico disincanto dal basso, potrebbe  essere legata appunto alle battaglie per i beni comuni materializzatesi perfino nel nostro paese letargico nei referendum, in alcune forme di sindacalismo territoriale, in lotte locali per l’ambiente e la salute. Ed è vero che sono le città ad assumere   un ruolo sempre più importante nella vita politica, economica, sociale, culturale e mediatica,  costituendosi come nuovo spazio  delle relazioni,  comprese quelle industriali, e quindi anche dei conflitti.

Ma purtroppo è  più realistico pensare che le città siano il territorio dove si consumerà al suo meglio la repressione, dove si accelererà il processo di “schiavizzazione”  alimentati da una crescente risposta militare ai bisogni e alle rivendicazioni e dalla pratica del ricatto esteso alla riduzione dei diritti, compresi quelli di espressione e manifestazione. Così che l’urbanistica diventa sempre più una scienza al servizio del controllo sociale, perché il sentimento imperante nelle città sono la diffidenza e la paura, largamente covate dalle disuguaglianze, poveri che temono la potenza dei ricchi, ricchi spaventati dalla rabbia dei poveri.

Che tra l’altro,  nel grande caos globale si sono diluite quelle gerarchizzazioni degli spazi urbani  che confermavano le differenze    confinando nelle  “periferie”, fasce fisicamente esterne ed  estranee alla città,  marginalità e   subalternità che si stemperavano in campagne sempre più manomesse ed abbandonate.  Baraccopoli, favelas trascolorano nello spazio urbano dando luogo a una crescente “urbanization of poverty” che fa della terra il  “pianeta degli slum” e imponendo tecniche sempre più sofisticate per controllare e, infine, sfruttare  sterminate masse umane  se già nel 2005  vivevano in accampamenti della disperazione ben identificabili almeno un miliardo e mezzo di persone. “La povertà urbana diventerà il problema principale e politicamente più esplosivo del prossimo secolo”, denunciava la Banca Mondiale già una decina di anni fa. Ma se complessivamente, dall’inizio degli anni Settanta, nel Sud del mondo gli slum hanno avuto una crescita superiore all’urbanizzazione in quanto tale, oggi quartieri di lamiere, baraccopoli, campeggi desolanti di rottami pèremono ai margini di ghetti di lusso, sempre più equipaggiati di strumenti di difesa e offeso, lambiscono perfino la Casa Bianca, proliferano intorno alle città d’arte, integrando nel panorama delle torri di vetro e acciaio che si stagliano a celebrare la modernità, costruzioni di cartoni catramati, plastica riciclata, mattoni grezzi, blocchi di cemento, paglia e legname di recupero.

Ricchi e potenti non possono che temere la bomba dormiente di  Sadr City o di Mogadiscio, dove infatti nel 1993 la milizia dello slum inflisse perdite del 60% agli Army Rangers, corpo specializzato  dell’esercito USA. Guerre convenzionali,  armi super-tecnologiche e  bombe “intelligenti” sono efficienti contro una città gerarchicamente strutturata, ma possono ben poco per contrastare la conflittualità  negli agglomerati di povertà e sottosviluppo.

Sempre più   i mutamenti demografici e la forma delle città cambieranno quella della guerra, spingendo governi e organizzazioni “dedicate” a studiare gli strumenti per affrontare una guerra mondiale a bassa intensità di durata illimitata contro le fasce più precarizzate e proletarizzate e potenzialmente criminalizzate, e le periferie affamate le cui propaggini sfiorano i quadrilateri della moda.

La paura generata nelle classi dirigenti dalle reazioni potenziali di questo proletariato espropriato  di tutto è immensa e spiega il boom delle “agenzie di sicurezza” private), la propaganda regresso isterica contro l’“uomo nero”, il “clandestino”, l’“abusivo”, le ronde e i roghi contro i rom,  della videosorveglianza, della produzione a ciclo continuo di “emergenze/ diversi”, l’erezione di muri (non ne sono mai stati innalzati tanti come da quando è crollato quello di Berlino, che avrebbe dovuto essere l’ultimo, di  tornelli, di chiodi che vengo su dal selciato, di sistemi di controllo e schedatura biometrici, di armi “invalidanti” in    un  vero e proprio catalogo   di manufatti e servizi offerti dal brand della Paura.

Un’Europa sempre più debole digrigna i denti delle  ‘Squadre Speciali Europee’  gestite dall’Europol, sviluppando la  cooperazione tra polizia e servizi segreti grazie ai ‘Centri Comuni Antiterrorismo’ in tutti gli Stati dell’UE nel timore non certo ingiustificato del nemico in casa. E d’altra parte si sa che nutrire il nemico serve a giustificare la guerra, quella profittevole che sul sangue dei poveri, molti, genera la ricchezza dei potenti, pochi.