143951610-529980a8-5e05-4f98-a7d9-c31aedd6471bAnna Lombroso per il Simplicissimus

Se ci fosse un Bignami elettorale, sbrigherebbe la faccenda con le formule di rito, il vecchio non vuole morire e il nuovo non ce la fa a nascere,  è il disincanto della democrazia profetizzato da Montesquieu, ma no è l’antipolitica, la perdita di autorevolezza dei partiti, sono i fenomeni di corruzione. A Roma è andato a votare il 19,5% in meno che nel 2008. Il Lazio, quanto ad affluenza, è la seconda regione peggiore d’Italia. In testa c’ è la Basilicata, dove alle 22 aveva votato solo il 43,12%, con una differenza però solo del -8,6% rispetto al 2008. In termini di calo d’affluenza, il Lazio è la quarta regione: -18,55% rispetto al -20,49% della Toscana e al -19,14% dell’Emilia Romagna, al -19,45 della Lombardia. Fanno meglio Marche (18,4), Veneto (-17,88), Umbria (-17,2) e Piemonte (-15,2).

Fondazioni, think tank, centri studi e di ricerca fingono di interrogarsi, proprio come se le loro ipotesi poi servissero davvero a orientare scelte, comportamenti e idee delle forze politiche e delle istituzioni, quando invece, per lo più si tratta di accorgimenti e espedienti al servizio dello loro sopravvivenza in vita, del godimento di doviziose prebende e generose offerte da parte di quel sistema che vuol continuare diabolicamente a perseverare nell’errore in barba a indagini,  suggerimenti, raccomandazioni e  diagnosi. E c’è chi si chiede se sia di destra o di sinistra, chi si interroga se sia meglio stanare gli astenuti di casa propria o non piuttosto cercare di sedurre gli elettori dell’altra “parte”. Chi lo motiva con l’apatia e chi lo spiega con la protesta: chi cioè lo inquadra, per via della crisi e dell’impoverimento diffuso, nella dimensione «centro-periferia», per la quale la partecipazione

politica di un individuo dipende soprattutto dalla sua posizione sociale, ed è tanto maggiore quanto più questa posizione si trova prossima al centro della società. E chi invece ritiene che  non sia l’effetto  passivo di un estraniamento  sociale, ma piuttosto l’espressione attiva   di contestazione delle tradizionali espressioni politiche, localizzabile non nei gruppi sociali più marginali, ma piuttosto in quelli capaci di innovazione. Come se l’ipotesi più plausibile non fosse quella più semplice, basilare: che all’origine di questo incremento dell’astensionismo ci sia  non solo e non tanto una trasformazione della cultura politica del paese (minor ideologia, minor passione politica, ecc.), quanto piuttosto lo sfaldamento del vecchio sistema dei partiti, ormai assenti dal territorio e incapaci di mobilitare e portare alle urne l’elettore tiepido.  Una spiegazione confermata  dalla constatazione contabile che la disaffezione verso le urne,   legata alla capacità di iniziativa dei partiti, non è una variabile discreta, ma è una variabile continua ed esuberante, che di solito presenta

il suo valore massimo alle elezioni di scarsa rilevanza nazionale, quando le macchine dei partiti sono

remote fredde e ferme, la posta in gioco solo apparentemente limitata, l’impatto comunicativo sull’imminente consultazione si esercita su scala minore, la potenza del leader nazionale   è più flebile.

C’è chi gioisce per il nostro ingresso tardivo del contesto della disaffezione occidentale e nella media europea come se l’inclinazione a partecipare al cerimoniale elettorale fosse una delle tante anomalie italiane,  il manifestarsi di un’indole credulona e infantile, di chi crede che si mantenga la democrazia andando una tantum alle urne. C’è poco da rallegrarsi perché invece è innegabile  che l’anomalia di sia e più che essere italiana o europea è una patologia che colpisce la cittadinanza,  per la progressiva erosione della sovranità, col crescere della sfiducia nei confronti del ceto dirigente, con la perdita del senso e della percezione dell’interesse generale messo in ombra da personalismi, leaderismo, autoritarismo del mercato, privatizzazione  delle istituzioni e delle rappresentanze.

Ma le colpe non stanno da una parte sola. Non so se l’astensionismo sia di destra – che c’è e potente, o di sinistra – piegata, amorfa o sleale nella sua forme degenerativa. Ma so che ci sono aree di questo paese cui il laissez faire sembra un cammino ineluttabile, cui l’accondiscendenza alle licenze, ai condoni, all’illecito, all’opaco pare una ragionevole scialuppa di salvataggio personale dal naufragio, per le quali il familismo e il clientelismo   rappresentano l’unico modo per sopravvivere alla precarietà, al sopruso, alla lesione di diritti e garanzie. E a queste aree presenti ovunque e emblematiche, che le elezioni siano nazionali o locali, sembra preferibile che il nuovo non avanzi affatto, che chissà che non sia peggio del vecchio, sembra meglio un potere dedito a farsi gli affari suoi, mentre i cittadini tirano la carretta, e meglio se in nero, per strappare coi denti la sopravvivenza. Il contagio si è diffuso, con l’incapacità di pensare che sia possibile qualcosa di “altro” da questo squallore pubblico che non sa più essere opulenza privata, con le dimissioni dal proprio destino, con l’impotenza a disegnarsi il proprio domani.