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Vi prego, basta cantieri

cantiere_sicurezzaLa crisi della sinistra, mentre produce risultati elettorali risibili è invece incredibilmente affollata di cantieri da quelli vendoliani  alla neonata Ross@, un fiorire di villette a schiera dove ognuno è gelosissimo del proprio giardino e della propria privacy analitica. E se non sono cantieri sono palestre dove si promettono addominali  muscolosi alle pance del potere oppure cittadelle della nostalgia ricostruite che dicono: rifacciamo il Pci. Così mentre il liberismo infuria con le sue ricette e il suo programma reazionario di impoverimento, distruzione di diritti, erosione del welfare, la reazione è quella di rinchiudersi dentro accoglienti conchiglie di reciproco assenso come gli abitanti di Ercolano che per scampare al Vesuvio si chiusero dentro alle rimesse delle barche, diventando degli ottimi calchi.

E in effetti abbiamo meravigliosi calchi del dover essere sociale in tutte le pose possibili, anche le più macchinose, ma nulla che sia veramente efficace, che riesca a coinvolgere le vittime del capitale finanziario, che riesca a porre concretamente l’accento sul lavoro nei luoghi di lavoro. Ed è singolare che la proposizione centrale di Marx, quella secondo cui la filosofia non deve interpretare la realtà, ma cambiarla, sia fattualmente negata proprio da quei pronipoti che rinserrati nei cantieri analizzano ogni capello del mondo senza riuscire minimamente a scalfirlo, forse anche felici di poter possedere in proprio una consapevolezza che ad altri sfugge, conservando con una straordinaria gelosia la proprietà privati dei mezzi di produzione politica. A pensarci bene già la stessa parola cantiere evoca al tempo stesso la costruzione, ma anche l’esclusione dei non addetti ai lavori, così che invece di grandi opere di edilizia pubblica si finisce per mettere assieme quartierini privati. Certo, che le riflessioni siano utili questo è scontato, ma temo che su questa strada che sostanzialmente parte dall’alto, da un’élite che si rivolge a un’élite, non si riuscirà a ricostruire una sinistra che quantomeno pesi nelle scelte del Paese.

La prima cosa da dimenticare è la distinzione da età della guerra fredda tra sinistra di governo e di testimonianza che costituisce spesso un comodo alibi sia per chi, in posizione di potere, fa cose di destra, sia per chi non va oltre l’orizzonte della manifestazione o del corteo. Una distinzione che è già tutta sul piano del pensiero di destra, dove la realtà è data, gestibile, ma non trasformabile: se governi non puoi esprimere idee nuove e alternative, se le hai puoi solo testimoniarle e sottoscrivere manifesti . Basta con questa robaccia, con questo inno a una concretezza vuota che si riduce all’azione del giorno per giorno, a un occasionalismo che  alla fine, si rivela un disastro proprio sul quel piano. La politica per essere efficace richiede un progetto, una visione, persino un’utopia e consiste nella capacità di avvicinarsi agli obiettivi nel contesto della realtà in cui si opera. Sarà anche banale, ma non credo faccia male attaccare al muro almeno un pensiero chiaro e distinto.

Proprio per questo dentro una società sempre più iniqua, attraversata da angosce che non riescono a dar vita a un pensiero sociale e servono invece benissimo al ricatto, bisogna ricollegarsi direttamente alle vittime, a quel mondo del lavoro che viene tenuto in ostaggio da puri feticci come produttività e competitività, agli esclusi dal banchetto del profitto che sono stati messi sotto il telone della cultura dell’individualismo assoluto, della separazione, per impedire loro di vedere  che sono la stragrande maggioranza. Dai movimenti sappiamo che questo è possibile sulla scala ridotta di un singolo problema (vedi la Tav) o di temi territoriali e cittadini, che diventano di per sè evidenti ed aprono finestre nelle monadi che siano diventati, ma la stessa operazione sembra impossibile quando l’orizzonte si allarga all’assetto della società nel suo insieme. Eppure la società liquida per così dire è stata tenuta insieme con promesse di cui la crisi ha rivelato l’inconsistenza: forse è il messaggio troppo mediato, troppo proveniente da un esterno che sa di privilegio, forse si ha paura della contaminazione. Per questo non bisogna avere paura della semplificazione perché essa è dentro la comunicazione di oggi, né bisogna accapigliarsi su dogmatismi come monaci bizantini, ma partire dall’evidenza dell’equità, delle regole, della solidarietà e dunque della prevalenza del pubblico come garante dei diritti . Punti fermi come brevi, ma brillanti costellazioni. Sfruttare la rete e la sua comunicazione orizzontale senza la paura di contaminazione con l’eresia, coinvolgere i movimenti senza pretendere di risucchiarli, ricostruire i ponti dove sono stati distrutti dal nemico.

Ora è evidente che tutto questo è completamente estraneo al concetto del cantiere con i suoi limiti di partecipazione, di azione politica e anche con la sua incapacità di sviluppare la protesta quando essa è necessaria . Se proprio si vuole il cantiere esso è già pronto, è lì dove la precarietà e la disoccupazione aggrediscono le persone, è nella sfera del pregiudizio etnico, nella compressione delle libertà, nella negazione dei diritti: quello è l’unico da cui si può tentare una ricostruzione.

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