boccassini2Anna Lombroso per il Simplicissimus

Un tribunale per chi ci capita, accusatore o imputato, testimone o turista giudiziario per caso, sembra un acquario, un posto astratto dalla realtà, un teatro con regole, sceneggiature, abiti di scena, usi e procedure arcaici, desueti, a conferma che leggi, e giustizia purtroppo, sono in ritardo quando non estranee dallo svolgersi dei giorni e della contemporaneità. Superfluo parlare dei tempi, futile ricordare che il tribunale di Roma si è perso non si sa come un anno di documenti processuali, riposti o dimenticati in un palazzetto, vano rammentare che in ossequio all’oblio della banda larga, i dossier dei procedimenti consistono per lo più in faldoni cui gli avvocati aggiungono brevi sgrammaticate memorie con precisione di amanuensi, e che giacciono sui tavoli di aule dove si svolgono in contemporanea udienze multiple.

Così succede che nel corso di un processo di grande rilevanza mediatica e che potrebbe avere significativi effetti sulla politica ( e quindi non si parla, per carità, di frode, corruzione, evasione, temi ormai trascurabili), si venga trasportati di peso nel processo a Frine, non quello di Iperide, no, quello di Blasetti, con il formidabile De Sica, roboante trombone, che con la veemente arringa salva la “maggiorata fisica”, o in Un giorno in pretura, allegorie indimenticabili di un’amministrazione della giustizia segnata dall’ipocrisia, dal pregiudizio, dai luoghi comuni, che finiscono per essere l’unico ancoraggio con la realtà intorno e fuori dalle mura.

Deve essere un contagio, una tentazione irresistibile se ci cascano anche le icone cui in un paese buio per l’eclissi della legalità, guardiamo con aspettative e fiducia. Così la Boccassini, rossa – e chissà che lazzi avrà dovuto subire prima di rivendicare la chioma combattente come una bandiera, per via del preconcetto sui rossi di malpelo – parlando di Ruby rubacuori, l’ha definita “furba di quella furbizia orientale propria della sua origine”, facendo peraltro sospettare che in virtù di quella astuzia genetica abbia persuaso l’anziano corruttore delle sue improbabili parentele e della sua maggiore età.
E dire che il nostro è un paese e noi siamo un popolo vittima dei più immarcescibili luoghi comuni e dei più vieti pregiudizi, declinati su tutta la scala possibile di accuse: pigri, indolenti, bigotti, vigliacchi, mammoni, inaffidabili; con tutti gli strumenti: lupara, mandolino, chitarra; con tutti i sapori: pizza, pummarola, capperi.

E il peggio sta nel fatto che invece di maturare spirito di corpo e coltivare un’unità difensiva, usiamo il pregiudizio per miserabili crociate interne, conflitti ancestrali, nord come il Belgio, Sud coi criminali, polentoni contro terroni, bionde insipide contro brune incendiarie, olio contro burro, peperoncino contro pepe, ‘nduja contro salama.
E dire che volevano fare l’Europa unita. L’unica cultura omogenea è quella delle freddure, delle barzellette sugli scozzesi avari, sui francesi poco inclini al sapone, sugli inglesi frigidi, sulle italiane irsute, sui levantini imbroglioni. E cui pare dovremmo aggiungere gli italiani xenofobi. Ma se l’Europa è unita solo dalle battute sguaiate e volgari, allora bisogno riconoscere che è Berlusconi il leader ideale.