Anti-Thatcher demonstration in Trafalgar SquareAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ricordo la mia stupefazione il giorno del matrimonio di Carlo e Diana, quando un pubblico nostrano insospettabile e vario si piazzò davanti al teleschermo. E non parliamo della meraviglia per l’audience nazionale in occasione del rito funebre della stessa Diana, straordinaria kermesse mediatica, tra lacrime e lustrini, canzonette e souvenir: foto, bicchieri, tazze da tè, magliette.
Si dirà che non c’è da stupirsi in un paese che ama i rumori del retropalco, dove i premier affidano confidenze e propositi a “Chi” di Signorini, insieme alle istantanee dell’album di famiglia. Dove si scava nei delitti, delle tragedia con puntigliosa e ossianica curiosità, dove dal caso Montesi o Bebawi in poi i processi “famosi” dividono in schieramenti antagonisti e accaniti.
Ma non è stata certo l’indole nazional-pop e nemmeno l’istinto ad appagare l’avida fame di pettegolezzi e di stravagante indiscrezione esercitata perfino in presenza del sopravvissuto tabù a ispirare la 7 a regalarci una sontuosa e pomposa diretta con il funerale della Thatcher, con tanto di forbito parterre, i soliti noti da Sorgi, che c’è da immaginare sia accampato negli studi televisivi, all’Annunziata, composti e pensosi come si addice alla liturgia, intento a paragonare quello odierno con altra esequie più o meno mondana e gourgeous.

Semmai è quella caratteristica così presente nella nostra autobiografia nazionale, l’ipocrisia, ad aver suggerito questa incauta scelta. In fondo chi considera inevitabile, ineluttabile fino a farlo diventare auspicabile quello stato di necessità che proprio la Thatcher aveva definito con l’acronimo tristemente noto di Tina, There is no alternative, gliela deve una commemorazione, con tanto di riconoscimenti e atti di indulgenza, professati da altri schieramenti ideologici, della sua determinazione (feroce), dl suo coraggio (belluino), della sua potenza (iniqua), così da mettere in ombra il sollievo esplicito e festoso delle sue vittime e il balsamo sulle vecchie ferite dei cori politicamente e liberamente scorretti dei minatori.

Il salotto di dolenti della 7 è uno spettacolino congruo a un Paese che ha creduto alle lacrime della Fornero, al dinamismo di Passera, alla difesa della Costituzione di Napolitano, alla cura dell’interesse generale di Monti. Che vuol credere alla Tina de noantri come una breve penitenza somministrata da chi è incaricato di risolvere problemi con una purga, nella speranza di tornare a tempi migliori. E ancora più coerente con una stampa che non informa, non interpreta e nemmeno rappresenta un’opinione pubblica, ma ritiene di “essere” l’opinione pubblica, di essere il pensiero comune e al tempo stesso di avere una funzione didattica e pedagogica.
L’elegantissimo arcivescovo che officia, in abito talare nero e argento, austero e sofisticato, ne ha ricordato una qualità, quella moderna, globale e smart, così valorizzata dai vari governi europei: non aver ceduto a una compassione che a lungo diventa “anti-sociale”. Perché alle gerarchie ecclesiastiche al servizio delle varie teologie, compresa quella di mercato, piace rivendicare di non poter essere pietosi, per essere esonerati dall’essere giusti.