donneAnna Lombroso per il Simplicissimus

“Voglio una donna al Quirinale” si intitola il video appello che trovate su Youtube e su innumerevoli bacheche di Facebook, di donne, ma anche di molti uomini coscienziosi, ai quali sono sempre tentata di ricordare l’apodittico pensiero in proposito di Arbasino (per essere femministi ci vuole la fica). E’ un bel filmatino nel quale si avvicendano incantevoli repèchage dell’emancipazione, come il Cif e l’Adei, e recenti new entry, ecumenicamente uniti nel pronunciare lo slogan “voglio una donna”, facce e voci femminili, belle e brutte, giovani e anziane, che dovrebbero trovarsi su fronti opposti nella società, sui temi del lavoro, sociali, dell’istruzione e della procreazione, ma che invece, miracolo?, si uniscono in un coro. E si aggiungono alle tante che in questi giorni si avvitano festosamente nella spirale del silenzio, come ha chiamato, appunto una donna, Elisabeth Noelle Neumann, quel fenomeno alimentato dai media e inteso a condizionare talmente l’opinione pubblica, che i cittadini e gli utenti sono scoraggiati dall’esprimere apertamente e addirittura ammettere con se stessi un’opinione diversa dalla maggioranza, per paura della sua riprovazione e dello scandalo suscitato da una convinzione politicamente meno corretta e meno universalmente acclamata. 

Non mi va mai bene niente, dice qualche mio detrattore … e per giunta sono sospettosa. Così ho imparato che quando le cose vanno male è inevitabile che si vada a pescare l’outsider – e peggio per noi se è un tecnico che si accredita come sradicato dalla politica e che si fa fare subito senatore come il cavallo di Caligola. E poco male se in altri casi l’outsider si converte in capro espiatorio o bersaglio, come sta capitando alla Boldrini, messa là per essere buona e bella, pia e caritatevole, e osannata per il suo volonteroso “penso” di insediamento, ora già oggetto di sberleffi per via di foto taroccate e presunti fidanzati intempestivamente giovani. 
E ho anche appreso da tempo che bisogna uscire dall’angusta condizione e dalla percezione aberrante che trasmette, di appartenere a una minoranza, da promuovere, favorire e far accettare, quando invece siamo una maggioranza. E che proprio per questo non valgono quote rosa elargite, spot furbi, manifestazioni più o meno oceaniche, ma conta invece l’autoderminazione, la rivendicazione dei diritti e la lotta per affermarli, per riappropriarsene e mantenerli. 

Le donne fanno parte di due maggioranze che in ugual misura devono rifiutare blandizie e ricatti, anche quelli sentimentali o retorici: quella di genere e quella dei lavoratori, parimenti numerose e parimenti calpestate, zittite, frustrate, ingannate e che si recuperano in fase elettorale e si promuovono quando c’è bisogno di voti, fedi d’oro, carne da cannone o buona per tirar su piramidi.
Berlusconi infatti, furbo e cinico più degli altri, si candidò come premier operaio, che la sua indole di guappo sessista non gli permetteva di candidarsi come premier donna. Questo ceto dirigente, vecchi e nuovi marpioni, limita invece la sua proposta alle donne, scegliendole però tra quelle già cooptate, quelle già da tempo adeguate al modello di potere inevitabilmente maschile o – e questo potrebbe rappresentare l’unico segno di cambiamento – a soggetti più o meno critici, ma comunque icone riconosciute e ammirate, da collocare come presenze estemporanee, occasionali, in quell’ammirevole e muscolare inclinazione all’uso improprio, nemica della competenza. 

Questa crisi, chi l’ha provocata, le ricette fatte per aggravarla, è popolata di ritratti femminili, qui e nella galleria globale, a dimostrazione che l’appartenenza di genere non è di per sé una qualità. I governi Berlusconi e Monti ne vantavano una vasta rappresentanza, chiamata a rafforzare il consenso a politiche che hanno colpito uomini e donne, le donne penalizzate in misura superiore, chiamate a sostituire un welfare cancellato, a tappare i buchi dell’istruzione, a prestarsi a una retorica del sacrifico invocata come fosse una vocazione o una caratteristica “naturale”.

Non basta essere donne “navigate” come la Bonino, che combina battaglie radicali con una radicale adesione alle politiche di quell’Europa dei quali conosce i limiti e le distorsioni, per aver ricoperto importanti ruoli istituzionali. Non basta essere donne rompiscatole come la Gabanelli, per rompere le scatole cinesi di un gioco che ha determinato questa implacabile sospensione democratica. Non basta essere onesti. Non basta essere “nuovi”. Non basta essere giovani. Non basta essere donne. Non basta nemmeno essere tutte queste cose insieme. È invece necessario stare dalla parte delle donne, dalla parte degli onesti, dalla parte dei giovani, dalla parte dei diritti e del lavoro. È indispensabile stare dalla parte giusta.