Ormai evito come la peste i talk show politici, dove l’organetto delle stupidaggini, delle banalità o del non detto suona incessantemente la dance macabre di un Paese che affonda e di una classe dirigente inadeguata, dove ogni problema viene eluso o confuso. Ma tra pubblicità e filmetti, vendite all’asta o ricettine, ogni tanto ci capito sopra. E così ieri sera, pur deciso a non dover subire la rivelazione dell’acqua calda ovvero delle confricazioni a pagamento tra Silvio e Noemi, sono capitato lo stesso su “Servizio pubblico” di Santoro e ho ascoltato il dramma di un disoccupato che vive da mesi di elemosina e alloggia alla stazione di Bologna.
Avrei fatto male a perdermela, non tanto per la cosa in sé divenuta purtroppo comune e prossima alle nostre paure, né certo per il contenuto emotivo che rimane dentro i modi della narrazione televisiva, ma perché nelle parole del disoccupato, separato, disperato si può cogliere il senso della crisi delle istituzioni, della politica, della forma partito, della rappresentanza, della società nel suo insieme che sono la radice della caduta di democrazia a cui stiamo andando incontro a grandi passi. Enzo, così si chiama questo clochard contemporaneo, esprime dei bisogni di base – una casa, il cibo, il lavoro – del tutto ovvi e oggetto di diritti vergognosamente disattesi da una classe dirigente intenta ai suoi balletti, ai suoi privilegi e alle sue lamentazioni rituali. Ma si tratta di esigenze immediate che non divengono richiesta sociale, restano domande individuali mandate, messaggio dentro la bottiglia della televisione, proprio a quel sistema sociale ed economico che non solo ha creato la sua condizione, ma che la auspica come necessario preludio alla caduta dei salari e dunque all’aumento dei profitti di pochi.
Enzo ha dunque espresso delle esigenze vitali, ma non dei “bisogni” perché questi ultimi non si riferiscono solo alle necessità materiali in sé, ma anche alla consapevolezza del loro ruolo e significato dentro i rapporti di forza della società e anche la loro condivisione collettiva, dentro un progetto di trasformazione o una visione politica che ne faccia dei diritti. Tradizionalmente dalle rivoluzioni del Settecento in poi ciò che trasformava le necessità in bisogni condivisi e obiettivi comuni, era una cinghia di trasmissione identificabile nei partiti. Lì si svolgeva l’elaborazione delle idee e la dialettica che poi si traduceva in azione politica. Quelli che invece oggi definiscono i bisogni a partire dalle loro esigenze di casta come vediamo proprio in questi giorni.
Qualunque sia il motivo di questa mutazione e della crisi di rappresentanza che ne deriva – il discredito per l’uso personalistico e sfacciato del potere o la surfetazione dei media sempre gestiti dai poteri economici o la perenne pressione delle lobby o mille altri fattori ancora – c’è da chiedersi se l’estensione della partecipazione permessa dalle tecnologie nel frattempo evolutesi possa davvero restituire rappresentatività o permetta soltanto un consenso aritmeticamente conteggiato che ne è soltanto il surrogato. Rappresentare significa infatti portare anche una visione complessiva della società, qualcosa che va ben al di là del conteggio minoranza – maggioranza che in realtà rassomiglia molto a una forma terminale di mercato della democrazia che è già dentro un progetto conservativo reazionario nel quale ciò che manca è proprio la possibilità di pensare il mondo in modo diverso.
Di certo le vecchie forme sono ormai improponibili, ma le nuove non esistono ancora o sono esigenze, necessità ancora senza forma. Però forse qualcosa si può fare per richiamare una partecipazione che potrebbe anche indurre i partiti a ritornare centri di elaborazione e meno cupole di potere. Tra tanti attentati alla Costituzione perpetrati in mezzo pomeriggio e senza discussione si potrebbe fare qualcosa di buono e correggere la Carta fondamentale ammettendo il referendum propositivo e rendendolo obbligatorio per certe materie, per esempio quelle che comportano variazioni alla stessa costituzione e le cessioni di quella sovranità da cui discende anche il senso e il valore della partecipazione. L’avessimo fatto prima ci saremmo evitati molti bocconi amari. Certo è solo un piccolo passo per gli anni complicati che ci attendono, ma sarebbe come sgranchire un corpo fermo da due decenni e ormai indebolito dalle piaghe da decubito. Un modo per ricominciare.
Sono andato a documentarmi caro Anonimo, e le dò ragione. Mi rimangio il “buon filosofo” e correggo con “mediocre filosofo”. Grazie, è sempre un piacere essere corretti da persone intelligenti.
Buon filosofo Cacciari? Se volete una smentita leggete l’introduzione a Zettel di L. Wittgenstein nell’Edizione Einaudi curata da Mario Trinchero a pag XI: “Così i per farli cagliare con Vienna, Tolstoi e, chissà poi perché, la crisi del ’29, i Pellegrini del pensiero li reinventano di sana pianta e li mescolano alla minestra fredda della lettura neopositivista”. La nota 3 chiarisce: “il maggior rappresentante di questa corrente interpretativa è M. Cacciari di cui cfr. soprattutto Krisis Milano 1976 spec. capp 2 e 3. Ma esemplare è il capitolo 4.”
Purtroppo anche il caso di Enzo è l’ennesima carne da macello da servire per alimentare la famelica bestia dei talk. Lo si vede dall’espressione neanche più contrita di Santoro che non recita ipocritamente come il suo allievo degenere Formigli facendo finta che di quei casi gliene importi alcunché. Poco prima, a conferma (l’ennesima purtroppo) di quanto lucidamente colto con somma maestria dal Simplicissimus, due esponenti dello stessa area politica (anzi proprio dello stesso partito) si specchiavano nella loro immagine che rifletteva la nullità reiterata del loro discorsume trito e ritrito (Marianna Madia & Massimo Cacciari, per citare questa fotocopia di fogli bianchi nulla-dicenti poiché nulla-pensanti). E’ stato ad un certo punto rivelatorio, quanto l’agnizione che si verificava nelle vecchie tragedie classiche, quando alla timida boutade quasi pentastellesca della Madia “…ci proponiamo di istituire una sorta salario minimo garant…” (dall’agenda del M5S) il politologo della zuppa di ceci (che detiene il poco invidiabile record di aver toppato tutte le previsioni politiche dell’ultimo trentennio) Cacciari ha volgarmente interrotto la collega, più insofferente dello Sgarbi che giustamente gli imputava la ciofeca del ponte sospeso di Calatrava, una settimana fa (il nostro abbandonava lo studio punto sul vivo: pessimo politico che ha trasformato la perla dell’umanità in un suk), profferendo il seguente epiteto alle parole poco convinte (figurarsi i donabbondio piddini…) della sua compagna di partito: “Puttanate…”. Non mi risultano sollevazioni da parte di alte cariche istituzionali sulla lesa maestà di una rappresentante delle stesse (e dire che ivi era presente una vittima di questi cortocircuiti da circo equestre: Battiato). Purtroppo abbiamo rimesso nelle mani di personaggi inadeguati come Cacciari (buon filosofo, pessimo politico, politologo da strapazzo, le cui analisi sono state, oltre che rozze e volgari, sempre smentite dai fatti) le nostre città, i nostri territori coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Sono i Cacciari e le Madia che hanno responsabilità per la situazione che hanno provocato. Il primo per le nefandezze nel territorio di Venezia, la seconda per aver scaldato il seggio in Parlamento all’ombra di Uolter Ueltroni.