invidia_20belliniAnna Lombroso per il Simplicissimus

Non sono invidiosa, penso che si tratti di un esercizio faticoso e sterile, mi limito, se leggo Arendt o Yourcenar, a rimpiangere di non possedere l’intelligenza vibrante e lucida della prima o la magnificenza immaginifica della seconda. Per il resto penso molto banalmente che ognuno sia come si dice, artefice di se stesso. Proprio perché ritengo che l’invidia sia un vizio particolarmente arduo, non nutro nemmeno particolare riprovazione per chi ne è affetto e finisce per farsi inquinare dal suo caustico stillicidio. Che poi sempre di più si riscontra un contagio del più tormentoso e umiliante dei vizi, di modo che invece di percorre la solita via dal basso verso l’alto, si dirama in via orizzontale, combinandosi con l’insicurezza e la diffidenza, avendo oggetto perfino chi sta peggio, libero dal possesso di beni e prerogative e quindi minaccioso.
Invece voglio esprimere la più ferma condanna nei confronti di chi, da sogli separati e remoti , da dorate cattedre morali, da comode cucce di figli e nipoti unti dal privilegio, biasima il rancore e qualche manifestazione più o meno consapevole del conflitto di classe, retrocedendoli a livorosa rivalità e a risentito rancore.

Come se esigere diritti fosse un’usurpazione.

Perché proprio di quello si tratta quando scandalosamente un figlio famoso, Sofri jr., accusa di squadrismo la precaria che ha ricordato non proprio sommessamente che un’altra jr. la Ichino appena poco più che ventenne è stata assunta a tempo indeterminato come editor in Mondadori. O quando Gramellini con quel suo pragmatismo da arrampicatore promosso in vetta, grazie a un intermittente, e perciò ancora più efficace, conformismo a valori “forti”, esprime la sua spregiudicata censura: “la precaria del Pd che espone al rischio di un linciaggio la figlia del teorico della flessibilità Pietro Ichino perché ha un lavoro stabile da dodici anni mi ha insinuato nelle narici un certo olezzo di forca. Essere «figli di» non è una colpa né un merito. E’ un fatto. Nella vita avrai più opportunità degli altri e pagherai questo privilegio con la maldicenza”. Il secondo peggio del primo, in vena di fisiologica difesa corporativa. Perché estende anche a questo terreno l’approccio adottato, condiviso e eticamente legittimato per tutto quello che riguarda civiltà, democrazia, uguaglianza, economia, insomma, vita e socialità: le cose vanno così, tutti ne siamo vittime e al tempo stesso lo accettiamo, non c’è alternativa e quindi è giusto tollerare e concorrere allo sfaldamento di regole e leggi, comprese quelle morali.

Per carità il familismo è un fenomeno globale, anche se la ricerca sociologica ne ha fatto un carattere italiano quanto la creatività e l’approssimazione, da Edward C. Banfield in poi. E le caste intoccabili o meno non rappresentano una cifra che connota solo la realtà indiana, peraltro ottimamente ancora tratteggiate nella produzione di Bollywood. Ma ciò non toglie che si possa aspirare a limitarne gli effetti, quelli più effervescenti, scandalosi, oltraggiosi in tempi di incremento sfacciato delle disuguaglianze. Tanto per entrare nel merito non dovrebbe destare scalpore la denuncia da parte di una precaria, di un “abuso”, legale, legittimo ma inopportuno e irridente della sua condizione di soggetto penalizzato dall’arbitrio iniquo della lotteria della vita. E non dovrebbe colpire, né suscitare entusiastica solidarietà il destino infame della signorina Ichino, condannata a subire la malevolenza di chi sospetta che il suo accesso prematuro a una posizione inamovibile – che richiede competenza, professionalità ed esperienza – sia stato oliato dal nome, dalle conoscenze, dal circuito non sempre virtuoso di una cerchia basata sul riconoscimento tra simili, sulla fidelizzazione a certi valori, sull’affiliazione.

Certi richiami a una concretezza cinica, disincantata, smaliziata fanno diventare maliziosi noi che dobbiamo supporre che la decantata flessibilità, la desiderabile mobilità altro non siano appunto che quella incerta precarietà che prelude alla moderna schiavitù. E che per meritocrazia si intenda che la maggior parte di noi, che non abbiamo avuto la sorte di appartenere alla caste per nascita o per ubbidienza, non ci meritiamo niente.
E allora cortesemente i molto virtuosi maestri ci lascino i vizi: l’ira, sentimento rivoluzionario e apocalittico in tempi di mesto conformismo e austera accondiscendenza ai regimi e ai poteri più ingiusti, la gola se vuol dire che siamo avidi di piaceri, qualità, felicità, bellezza che altri vorrebbero loro inalienabile monopolio. E perfino l’invidia se significa che i poveri vorrebbero avere le stesse possibilità dei ricchi, per non essere costretti a cimentarsi con crune di aghi incaricato solo del transito di cammelli e straccioni, se vuol dire perfino rivalsa dispettosa per la caduta di scapestrati cialtroni o l’eclisse sventurata di esuberanti avventurieri. Con quello che ci hanno inflitto, non possono rimproverarci se prenotiamo un posto in prima fila alle Tuileries, per goderci lo spettacolo della deposizione, o uno sgabello in Place de la Concorde.