Da un anno e mezzo tutti i media mainstream, gli osservatori, i guru, i veggenti, i commentatori avevano stabilito che la nuova frontiera della comunicazione politica era il web. Da circa una settimana gli stessi ci dicono che invece siamo stati coglioni a crederlo perché la televisione conta ancora, eccome, tanto che il Cavaliere proprio dal bacino dei teledipendenti ricomincia a raccogliere consensi. Dentro una cultura che si muove per mode e parole d’ordine non è così strano questo improvviso cambiamento di palinsesto che prende atto di una ovvietà: le nuove tecnologie non azzerano di per sé quelle vecchie, anzi si crea spesso una sorta di interazione o di sinergia.
Questo vale in genere, ma ancora di più nella comunicazione dentro la quale se è vero che alla lunga il medium è il messaggio è anche vero che il messaggio è costruito dalle attese dei comunicatori. Si può usare il web esattamente come si usa la televisione ed è questo che ha fatto il mondo politico, usandolo per l’audience, ma non per l’interattività, salvo alcune eccezioni. Sappiamo bene come il politico usi i social network o i propri siti semplicemente come un amplificatore, un surrogato televisivo ma senza instaurare un vero dialogo. Li usa sottraendosi alla loro natura.
Sono cose che tutti noi sperimentiamo, ma che nascono più che da un ritardo nella comprensione della rete da una incapacità politica di comprendere cosa sia cambiato: il distacco dal Paese reale che spesso si avverte in Parlamento si traduce nell’uso di strumenti orizzontali come la rete e in particolare i social network come fossero verticali e gerarchici ad imitazione dei giornali e della televisione dove il messaggio viene comunicato “dall’alto” per così dire, senza mettersi davvero in gioco e cercando di godere delle rendite di posizione conferiti da altri mezzi e/o dagli apparati.
Stiamo assistendo alla nascita di un modo di far politica più diffuso e partecipato nel quale l’opinione pubblica diventa parte della democrazia, ma le elite in gran parte si sottraggono alla fatica di esserlo per come interagiscono, danno per scontata la loro preminenza e la capacità di rappresentare le persone: partono da questo territorio privilegiato per scendere o salire in rete, ritenendo che il “discorso complessivo” li esoneri dalle varie partite che si possono ingaggiare quotidianamente. Così i segretari, gli uffici stampa, insomma il tradizionale apparato di mediazione giornalistica, usato nel solito modo, si frappone come una membrana abbastanza impermeabile tra il personaggio e i suoi fans reali o comprati a imitazione della claque dei talk show.
Ecco perché i “numeri” televisivi del cavaliere sono ancora efficaci: perché gran parte dell’elettorato non ha in realtà un rapporto diverso col politico quale esso sia: non avendo un vero dialogo, giacendo obtorto collo dentro un tipo di comunicazione verticale, è ancora sensibile alle promesse iperboliche e contradittorie, alla frasetta twittata, alla bugia rifritta buttata nel piatto senza fermarsi a spiegare la ricetta con esiti alle volte ridicoli. Il web non è ancora il mainstream della politica perché in realtà il ceto politico non è realmente nel web e spesso nemmeno nella politica.
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Il fronte della comunicazione è lo specchio di questa nostra società staccata completamente da un ceto politico dal quale non si sente minimamente rappresentata. I movimenti d’opinione son un optional questo perchè i grossi gruppi editoriali sono in mano a lobbyes finanziarie e chi scrive è più un cortigiano che un giornalista che cerca di fare il proprio mestiere. La rete in Italia è utilizzata da poche persone rispetto alla media di altri paesi dove il web è entrato a far parte del quotidiano e del quale non si può fare a meno. Ragion per cui l’unico strumento di massa rimane ancora la tv che cerca attraverso programmi d’intrattenimento di indirizzare l’informazione veicolando determinate notizie invece che altre. Pur tuttavia c’è sempre una buona percentuale di persone che sfuggono a questa informazione unilaterale, in quanto oggi chi segue determinati programmi come talk-show ad esempio, riesce ad avere un’idea precisa su ciò che si sta dicendo e perchè si sta dicendo. Se l’analisi poi vogliamo spostarla su queste elezioni da scoppio, ci si accorge che nulla è fondamentalmente cambiato nel modo di proporsi in tv per fare campagna elettorale. Facce appese, che emanano odore di chiuso, di stanze dove si parla per vendere la propria figura al meglio e nel momento in cui sulla scena politica si presenta un berlusconi che rompe la regola dell’etichetta e segue più quella del cabarettista per dare l’idea che l’uomo in tv è come se stesse tra la folla è chiaro che il risultato cambia. Insomma checchè se ne voglia dire, Berlusconi è un uomo che conosce benissimo il linguaggio dei media che riesce a proporsi e a ottenere consensi in brevissimo tempo, così come sta realmente succedendo. Per quanti esperti della comunicazione che girano in Italia, l’unica cosa che hanno appresa è la parola marketing, come se fosse la chiave magica per aprir qualsiasi tipo di porta. Non a caso in Italia fino a quando la società non riuscirà ad appropriarsi di questi strumenti le nostre vite saranno ostaggio di vecchi camaleonti che usano l’informazione come se fosse una stanza nella quale riunirsi per accogliere le decisioni del Gran Maestro dopo giuramenti fatti in nome della fratellanza che accomuna i fratlli che ne fanno parte. Il guaio di una tv veicolata dall’alto è mantenere in piedi questo sistema di potere retto da grandi vecchi e che giocano a usare un mezzo come il web appannagio di pochi ma non di molti.