il ratto d'europaThomas Mann, Albert Einstein, Guillaume Apollinaire, Sigmund Freud, Rainer Maria Rilke, Pablo Picasso, Saint John Perse, Aristide Briand, Jean Monnet. Solo a pensarci vengono i brividi: questa rosa di intellettuali ha rischiato, per un battere di palpebre della storia,  di essere la prima commissione europea. E ancor più si trema pensando ai Barroso, ai Van Rompuy, ai Draghi e a quella frittura mista di nullità ormai odiose che si aggira tra Bruxelles, Parigi e Berlino. Con la dependance della servitù a Roma e Madrid.

Fu una breve illusione subito spezzata dalla crisi di Wall Street e inghiottita dal nazismo e dalla nuova guerra. Tuttavia i nomi illustri non devono confonderci: l’Unione europea nasce con due peccati originari che oggi vengono al pettine e in un certo senso   fanno luce sul declino di un sogno e sul miserabile stato attuale nel quale spadroneggia una burocrazia ottusa e incompetente, spesso anche corrotta, a far da corona ai rinascenti egoismi nazionali.  Così oggi, visto che la fine del mondo non è arrivata, anche se ognuno vive le proprie apocalissi private, cercherò di spiegare perché  ho in odio il feticcio dell’Europa. Non l’idea in sé, ma la sua deplorevole realizzazione  e le preci innalzate a quello che ormai è un idolo falso e bugiardo. E per farlo dire a me che sono il prodotto di una densa promiscuità continentale, ce ne vuole.

I due peccati originari sono l’idea mercatistica che fin dall’inizio è stata alla base della costruzione e il fatto che essa sia stata creata, favorita e finanziata come blocco da contrapporre all’Unione Sovietica e ai suoi paesi satelliti. Qui ha poco interesse discutere sul merito della cosa, quanto sulla circostanza che le spinte, i suggerimenti, gli obiettivi concreti sono venuti da fuori e rispondevano a una geopolitica sostanzialmente estranea al continente e ai suoi popoli. L’Europa politica che oggi s’invoca, non so bene se sinceramente o per evitare di prendere atto della realtà gettando il cervello oltre l’ostacolo, in realtà non ha mai fatto capolino in quasi un secolo di dibattito.

In termini moderni il progetto di un’unita del continente nasce dopo l’inutile e orrenda carneficina  della prima guerra mondiale da Louis Loucheur, ingegnere e imprenditore vicino a Clemenceau, coordinatore dello sforzo bellico francese oltre che della successiva conversione industriale e soprattutto dal conte austro ungarico Richard de Coudenhove-Kalergi. Quest’ultimo nel 1922 scrive un libro, Paneuropa, ein Vorschlag  (una proposta) destinato ad avere una certa fortuna. La sua domanda è: come evitare future guerre in Europa? E la risposta è quasi profetica nel senso che ricalca la creazione della Ceca, ovvero la comunità del carbone e dell’acciaio primo passo sulla strada dell’Unione: dal momento che i conflitti richiedono enormi risorse risorse industriali allora mettendo tali risorse sotto un’autorità comune nessuna delle grandi potenze potrà preparare la guerra. Se la Germania e la Francia delegassero a un’autorità binazionale la gestione di carbone acciaio ecco che sarebbe per loro impossibile entrare in conflitto.  Coudenhove-Kalergi quindi fa un passo avanti e riprende le idee espresse in un libro del 1918 da Giovanni Agnelli,  Federazione europea o Lega delle nazioni? in cui l’industriale italiano vagheggia la creazione di un forte governo continentale per contrastare il revanscismo delle nazioni. Tanto forte da poter essere di fatto una sorta di dittatura.

Nel 1926 il conte austro ungarico, ormai solo austriaco, crea l’Unione Paeuropea con il progetto di favorire una cooperazione pacifica ed ottiene, anche per il suo rifiuto del fascismo, l’appoggio dei nomi citati alll’inizio, tanto da assicurarsi la collaborazione del premio nobel per la Pace Briand che diviene presidente dell associazione. Jean Monnet tira le fila del progetto e ottiene diversi successi, ma alla fine l’arrivo della crisi economica e l’acuirsi delle tensioni che culminano con l’elezione di Hitler a cancelliere della Germania, mandano all’aria tutto. In ogni caso è chiaro che questo primo tentativo  di unione non si basa su un sostrato di partecipazione popolare, né su un’idea di democrazia e nemmeno su una prospettiva geopolitica, ma su un progetto sostanzialmente di mercato capace di per se stesso di rendere impossibili i conflitti. Qualcosa di non molto lontano da ciò che verrà realizzato dopo la seconda guerra mondiale.

Ed è alla fine del conflitto che s’innesca il secondo peccato originale. Anche qui ritroviamo Coudenhove-Kalergi a tessere rapporti con gli Usa per convincerli a imporre un’organizzazione federale dell’Europa. Cosa che trova orecchie attente soprattutto in Allen Dulles e insomma tra i ragazzi della Cia e viene sponsorizzato da Winston Churchill che parla di Stati uniti d’Europa nel settembre del 46 all’università di Zurigo. Ma l’idea anche qui non parte da nessuna visione di largo respiro, ma solo dalla necessità di contrapporre un blocco più ampio possibile all’Urss, blocco sotto la tutela degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, dove i singoli stati mettono in comune alcune risorse sotto la sorveglianza e anzi il governo  delle due grandi potenze. Quindi qualcosa che riprende il mercatismo di Kalergi inserendolo in un progetto neo coloniale. Nel gennaio del ’47 Churchill  crea il Comitato provvisorio per l’Europa Unita e in marzo il congresso Usa vota una mozione di sostegno del progetto anche in vista delle “tendenze espansionistiche del comunismo”. Ma è un periodo dove la creazione di comitati e di progetti di alleanze non conosce soste e dove soprattutto esiste la massima confusione riguardo ai significati precisi: confusione peraltro voluta e auspicata che si propone di creare una sorta di massa critica europea capace di sottrarre, in quella situazione ancora fluida, gli stati dell’Est alla tutela sovietica.

Tutto cambia quando nell’agosto del ’49 l’Urss fa esplodere la sua prima bomba atomica: il presidente Truman si convince che  ormai il mondo è diviso fra due superpotenze nucleari, tra due blocchi e questo rimette in gioco i piani fatti precedentemente. La Gran Bretagna viene marginalizzata ed esclusa dal progetto, salvo un suo successivo rientro come membro degli Stati Uniti d’Europa, in funzione di elemento di controllo, si preme sull’acceleratore della Nato e contemporaneamente si cerca di fare di una unione europea qualcosa di più solido rispetto ai piani del primo dopoguerra. Soprattutto si cerca una fedeltà politica. Così nella primavera del 1950 gli Usa affidano a Robert Schuman, ministro degli esteri francese, con il merito di essere anche membro soprannumerario dell’Opus Dei, oltreché collaboratore di Petain nella Francia filonazista di Vichy, il compito di proporre la messa in pratica delle idee di Coudenhove-Kalergi lanciando la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nella quale entrò anche l’Italia che aveva pochissimo carbone e poco acciaio, ma che era strategicamente indispensabile in quanto territorio di confine geografico e politico. L’anno successivo fu firmato il trattato. Nel 57 arrivò il Mec o mercato comune con il Trattato di Roma che ancora costituisce il nucleo fondamentale dell’Unione. Poi il trattato di Lisbona del ’92 che sancisce i principi liberisti e infine l’Euro che in effetti è stato assurdamente concepito come una prosecuzione di quel mettere sotto un’autorità indipendente le risorse. Solo che in questo caso sono monetarie e non funzionano come il carbone.

Naturalmente mi sono limitato all’essenziale. Ma quello che mi premeva di mostrare è che la creatura europea difficilmente si potrà trasformare in un soggetto politico e in una sorta di Federazione: le tare che si porta dietro sono troppo vistose ed è inutile tentare la respirazione bocca a bocca. Occorre un salto di qualità che è difficile immaginare nella situazione attuale e soprattutto occorre una riedificazione completa alla luce di altre idee e anche di un mondo che è completamente cambiato dal dopoguerra e nel quale l’Europa appare come una balena spiaggiata, senza voce, senza unione se non quella di una allucinante moneta, senza democrazia e in balia della tempesta. Occorre rifarla dalle fondamenta questa casa comune che oggi è diroccata e invece di essere uno scudo contro la speculazione, gli egoismi nazionali, le dislocazioni dei poteri mondiali, lo sfruttamento  sembra esserne vittima ancor più delle “piccole patrie”.  E in qualche caso anche promotrice. Si, qualche muro bisogna abbatterlo per rifare la casa se vogliamo esserne abitanti e non prigionieri.