Anna Lombroso per il Simplicissimus

Nella competizione barbarica per aggiudicarsi il podio della violenza, la medaglia d’oro spetta alle dichiarazioni del prefetto di Roma e della ministra Cancellieri, non sorprendenti o inattese, ma cinicamente feroci e spietatamente sprezzanti delle regole della democrazia. «Quello che fanno le forze dell’ordine per gli ebrei romani non si fa in nessun altro Paese», ha proclamato il prefetto. Ci aspettiamo che rivendicherà anche che quello che fa Roma per la perfida Albione superi l’impegno di altre metropoli, o che la protezione degli omosessuali dagli omofobi oltrepassi i loro meriti, o anche che la tutela delle donne dalle violenze sia encomiabile perché protegge anche le scriteriate che vanno a passeggio la sera. Come se fosse una virtù civile condurre indagini e reagire nell’ambito della legalità dopo episodi di intolleranza fascista a razzista, nei confronti di minoranze religiose costituite da cittadini italiani, di segmenti di popolazione locale o di ospiti inermi, piuttosto che innalzare i livelli di vigilanza, prevenire, isolare i portatori di quei virus che da sempre minacciano la civile convivenza, anziché sottovalutarli, blandirli, rafforzarlo per poi impiegarli come comode teste d’ariete o profittevoli strumenti di provocazione, nemici creati ad arte per legittimare la guerra. Proprio come la Cancellieri dietro alla quale si rivelano quelle stirpi di benpensanti cerimoniosamente al servizio di regimi con la faccia feroce, quelli che prima e dopo Bava Beccaris invitano chi protesta a “anda’ a lavura’” come se oggi il lavoro fosse accessibile, possibile, insomma un diritto oltre che un dovere, e non una fortuna elargita in cambio dell’ubbidienza al ricatto. La Cancellieri ha la sfrontatezza di invitare a bavaglio e repressione inevitabili reazioni alla crisi che altri ci hanno inflitto, come a dire che bisogna estirpare la libertà d’espressione non volendo estirpare la povertà e l’ideologia che la produce.

Non possiamo che temere che a questa violenza verbale segua l’azione, come d’altra parte è sempre successo. Non meraviglia che il prefetto non veda motivo per impedire la manifestazione dei neofascisti coagulati da Casa Pound. Anche ammettendo che il governo e i solerti servitori di uno Stato sempre più umiliato, non vogliano direttamente scatenarli per giustificare la repressione, diciamo che sono loro più affini, se non più utili, presenze abituali, tollerate, impiegati al bisogno, sostenuti e legittimati.
Come ricordava ieri il Simplicissimus (qui), Monti si è fatto un vanto, presso i suoi padroni attuali e auspicati, finanza continentale o “investitori” arabi, del fatto che in Italia non ci fossero grandi manifestazioni come in Spagna e in Grecia, per rassicurarli anche sulla disponibilità italiana a assumersi la leadership operosa della strategia di repressione transnazionale che ha ispirato il trattato sull’Eurogenfor, la muscolare polizia cui affidare l’unità dell’espressione geografica europea.

È evidente che hanno paura della geografia dei movimenti anti-austerity cominciati in Islanda – primo paese europeo colpito dalla crisi – dove i cittadini autoconvocati hanno reagito al crollo provocato dal fallimento delle tre principali banche del paese, denunciando le responsabilità delle otto famiglie che dominavano politica ed economia (significamente definite come parte di un octopus tentacolare), e imposto un referendum che si è concluso stabilendo una rinegoziazione del debito. O delle proteste nelle forme più tradizionali dello sciopero generale e delle manifestazioni sindacali che hanno accompagnato la crisi irlandese, opponendosi ai tagli nelle politiche sociali. E poi via via l’irruzione sullo scenario della protesta dei giovani autoconvocati in Portogallo, degli indignados in Spagna, della rabbia greca, che si sono diffusi attraverso canali indiretti, mediatici (soprattutto attraverso le nuove tecnologie), ma anche diretti, fatti di contatti tra attivisti di diversi paesi, per natura geograficamente mobili.

E ora hanno paura anche qui, di quelli che dimostrano per confermare che non è questo il nostro governo e che non lo sono i suoi valori, i suoi obiettivi, la sua ideologia, che lo stato d’emergenza, di fronte al quale vogliono farci chinare il capo, trasformato nella regola, ha scardinato che le fragili strutture della nostra rappresentanza, tanto che il voto diventa una formalità, così che capi di stato, banche centrali, economisti e politici di varie nazionalità e colore politico trasformano il migliorato rapporto dell’Italia con il resto del mondo un boomerang che ci impone il premierato del suo maggiordomo.

Chi è in piazza oggi, ma da una parte sola, quella giusta, manifesta perché la crisi in Europa è crisi di democrazia, prima ancora che crisi finanziaria. E con la riduzione dell’intervento riequilibrante della politica sul mercato (con l’egemonia dell’ideologia delle liberalizzazioni, privatizzazioni e deregulation) impone una concezione elitaria della partecipazione (solo elettorale, occasionale e potenzialmente distorta) dei cittadini e una crescita invece degli spazi di influenza per le lobby e gli interessi forti.
Chi è in piazza oggi protesta contro l’affronto a principi e diritti sanciti dalla Carta costituzionale, quello allo studio, alla salute, a un ambiente sano, alla bellezza, alla sicurezza. E l’indignazione si indirizza verso una corruzione della classe politica, declinata sia attraverso il sistema delle tangenti, che come tutela dei privilegi delle lobby, come cointeressenze tra istituzioni pubbliche e potere economico, come annientamento della forza morale e propositiva della critica e dell’opposizione.
Chi è in piazza oggi protesta contro il governo che ha commesso un vero e proprio ratto di democrazia, sollecitato dai poteri finanziari, come da parte di organizzazioni internazionali, attraverso patti scellerati e ricatti anti-costituzionali che hanno privato i cittadini della loro sovranità.
Chi è in piazza oggi, e lo sarà anche domani e dopo, non vuole farsi contare dalla questura o dai media assoggettati. È là per far contare i cittadini che vogliono una giustizia globale e per ripristinare una democrazia di uguali con eguale diritto alla parola e uguale diritto al rispetto in uno spazio pubblico e plurale.