Anna Lombroso per il Simplicissimus

A mio papà, finita la guerra, continuavano a chiedere come mai non emigrasse in Israele. E lui “sono italiano, perché dovrei andare in un paese dove comandano la destra e i preti? Mi bastano quelli di qui”. Lo sconcertava quella domanda – antifascista, e non solo perché ebreo, partigiano e non solo perché antifascista e antinazista, ma per contribuire alla liberazione degli uomini dallo sfruttamento e dall’oppressione della povertà, anticlericale e non solo perché laico ma perché considerava il potere ecclesiastico un motore di conservazione e arretramento – aveva provato affetto per la “patria” proprio come dice Edith Stein, non per nazionalismo, con la compassione che si prova per un amico in pericolo, umiliato, maltrattato. Quello che proverebbe oggi, ancora, per l’Italia e gli italiani oppressi, privati come allora di libertà, lavoro, diritti, dignità e futuro. E come un’altra ebrea, Hannah Arendt, anche lei profondamente laica, pensava fosse umano e civile non amare un popolo, una nazione, o addirittura l’umanità, sentimenti che si addicono oggi agli algidi cinque candidati primari e a miss Italia, bensì amare i propri cari, i propri amici, la bellezza, il sapere la conoscenza e la ragione. Mentre invece con l’umanità bisogna camminare di fianco, non davanti o dietro, sopra o sotto, ma insieme, senza pregiudizi né favorevoli né ostili.

Ma si vede che la combinazione di appartenenza anche solo culturale a una famiglia “etnica” con quella alla sinistra, i pregiudizi continua ad ispirarli. E che sia necessaria la discolpa: arriva sempre un momento nel quale la guerra allarga la gamma delle vittime e dei profughi. Materiali e morali: donne e uomini strappati alla loro terra, ma anche ai loro territori mentali. Profughi delle ideologie, degli schieramenti, delle certezze, della cittadinanza nelle diversità.
Così da me che mi sento straniera e nello stesso tempo a casa in ogni luogo, che la mia heimat sono il cuore dell’uomo che amo e delle mie nipoti, i bei posti ovunque siano, i libri, la musica, da me con cadenza seriale si reclama, in quanto ebrea-diasporica-buona (cioè di sinistra), la condanna di Israele, e la rottura, qualora ci fosse, di quel sottilissimo filo che dovrebbe legarmi a quel Paese. Perché esiste ed è solido il pregiudizio sulla sussistenza di quel vincolo tanto acritico ed emotivo da non distinguere tra popolo e governo, tra integrati e critici, se per esempio il filosofo Massimo Cacciari, diventato nel passaggio dallo Steinhof al San Raffaele meno attento ad un approccio laico, ebbe a dire che una “differenza” ebraica resta, anche negli ebrei «buoni», mai abbastanza tali, mai abbastanza politically correct, mai abbastanza italiani, mai abbastanza annessi, mai abbastanza integrati, troppo, forse, influenti.

Qualcuno ha detto che Israele è il cuore dell’Europa scampato all’Europa, che sta in Terrasanta come un aquilone cui la nostra mano è legata. Non posso dire di amare quel cuore morale di un’Europa oggi ancora più immorale, se lo sterminio presto dimenticato lo persevera in altre forme contro popoli e diritti. Non posso dire di amare uno stato diventato uno scrigno identitario chiuso, etnico e nazionalista; un aquilone strasformato in caccia militare da un governo trucemente neoliberista. Non amo nemmeno “l’entità statuale formale di Palestina”, come la chiamano gli atlanti, se l’amore dovesse significare anche legittimazione etica e democratica, dopo quella elettorale, di Hamas e Hezbollah e quindi anche di quell’integralismo. Se proprio vogliamo parlare d’amore, lo provo per israeliani, palestinesi, ebrei, islamici, coinvolti in una spirale che si avvita su soluzioni e espressioni geografiche vecchie e consunte, su stati a base «etnica» (qualsiasi cosa voglia dire questa parola) e/o religiosa, ben poco democratici e per niente laici. Lo provo per il sogno che da una parte e dall’altra qualcuno sogna, di pace con giustizia, di popoli autoderminati e liberi. Lo provo per chi è costretto ad assaggiare il sale dell’esodo, l’amarezza dell’esilio, il dolore della perdita e non certo per le ragioni di governi, autorità o potentati, perversamente uniti dai loro interessi contro quelli dei loro popoli. Lo provo, e con dolorosa collera per i morti, che non sono vincitori o vinti, non hanno patria o nazionalità e le loro radici sono quelle sepolte nella terra nella quale sono tornati, per bambini orrendamente addormentati con l’unica nenia del pianto dei genitori. E la cui fine è buia e inesorabile come quella del diritto sopraffatto dal torto.

No, non mi corre l’obbligo di giustificarmi o discolparmi. Invece sento quello di interrogarmi. Perché c’è qualcosa di velenoso che circola intorno a queste geografie, che riecheggiano e rievocano insieme a nuovi pregiudizi antiche tossiche porcherie, quelle della demoplutocrazia, di moderni protocolli e arcaici complotti, della finanza nelle mani di nasi adunchi, dei quali comici wasp suggeriscono di diffidare.
Ha ragione Gadi Luzzatto Voghera in un prezioso libriccino sulle nuove frontiere dell’antisemitismo, l’ebreo è si la vittima, ma anche il sionista, il lobbista, il plutocrate, l’americano, e infine il nazista. Non solo perché ormai confuso con il militare israeliano, sfigura nel nazionalismo e nell’integralismo, le forme regressive in cui la globalizzazione riscrive il mito della nazione. Ma perché ha tradito lo stereotipo convenzionale della vittima, per tornare ad essere quello scomoda, che procura guai, che mesta nel torbido, grazie ad opache alleanze che per trovarle basta seguire l’odore dei soldi. Anche per spiegare questi tremendi fuochi di guerra, anziché voler rivelare la protervia razzista di uno stato militarizzato o l’indole vendicativa di una pulizia etnica, sarebbe meglio seguire l’odore dei soldi, interpretare temporalità, coincidenze non casuali, vicinati ingombranti e – come da altre parti non troppo lontane – la pressione di malessere sociale interno da sedare con la tradizionale anestesia del nemico da combattere. Come d’altra parte è sempre successo con le guerre di religione e non.

Non fa un buon servizio alla storia e nemmeno alla cronaca, quel rovesciamento acrobatico delle vittime in carnefici, del torto in diritto, dei martiri in aguzzini. È un bell’espediente retorico, ma solo quello, sostituire la Stella di Davide con la svastica, a meno di non credere davvero, per una forma non inedita di razzismo, che quello ebraico sia il popolo eletto, l’unico in terra incaricato di trarre lezione dal passato, non infliggendo ad altri quello che ha subito nel passato, superiore quindi, ma ciononostante condannato a uniformarsi a stirpi meno elevate, italiani che respingono gli immigrati, poveri che calpestano sommersi, vinti che cercano vendetta. Gli ebrei, quelli buoni ma non del tutto graditi della diaspora, quelli cattivi in terra di Israele, sono buoni e cattivi come tutti gli uomini su questa terra di dolore, soggetti e permeabili al male, alla diffidenza, alla paura, quanto, a volte, la bene, alla bellezza, alla solidarietà.
A qualcuno piace molto quella formula amaramente edificante secondo la quale c’è sempre un ebreo di qualcun altro. Così che oggi si trasferiscono sui palestinesi le categorie della storia ebraica, loro, diaspora e ghetto, loro, depositari per questo della speranza messianica di riscatto. Il fatto è che nessuno deve essere l’ebreo di qualcun altro, nessuno è geneticamente segnato dal destino di vittima e nessuno deve esserlo da quello di carnefice. I morti sono tutti uguali, ma la resistenza nel ghetto di Varsavia offriva una morte meno acre di quella del lager, perché è la salvaguardia della dignità e della luce del pensiero libero che fa dell’uomo un eletto e non la nomina di un dio, quel dio unico, per chi ci crede, dall’identità così forte da non permettere altri dei e insieme così debole da far sì che si debba lottare per affermarne quella potenza che la tradizione di ciascun monoteismo ha irrigidito.

Ma qualcosa deve cambiare, qualcosa sta cambiando, un popolo unico, un unico sale della terra di oppressi, umiliati, poveri, non vuole più subire la violenza dello sfruttamento. Possiamo farne parte tutti, uomini, donne, fratelli, compagni, come si diceva in un tempo più umano.