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Neo assassini. O il lavoro o la vita

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri cinque: Un contadino di 71 anni, travolto dal suo trattore in Alto Adige.  Antonio Roselli, 64 anni, sarebbe caduto da un’impalcatura mobile e per lui, nonostante il tempestivo soccorso, non c’è stato nulla da fare. E un piccolo imprenditore, nel comune di Massaros, è morto dopo essere precipitato da un tetto, cadendo da un’altezza di circa otto metri. Maurizio Lorenzetto, un operaio di 55 anni dipendente della Sistemi Territoriali,  stava effettuando  quando è caduto nel fiume ed è deceduto poco dopo. Stefano Mirabelli, 42 anni,   co-titolare della ‘Fratelli Mirabelli’ azienda meccanica di Ronco Scrivia, in provincia di Genova,  è morto all’interno dell’azienda, schiacciato da un muraglione crollato per circostanze ancora da chiarire.

Oggi due…. Finora…. Un operaio dell’azienda municipalizzata Veritas è mortomentre era al lavoro a Campalto, nel Veneziano. E’ stato trovato fra due vasche di depurazione dell’azienda municipalizzata che gestisce anche la raccolta dei rifiuti. E un giovane operaio dell’Ilva, Claudio Marsella di 29 anni, di Oria (Brindisi) locomotorista, è morto mentre era al lavoro nello stabilimento di Taranto. Il corpo è stato trovato ai piedi di un locomotore nei pressi di uno dei moli interni al recinto dello stabilimento.

Intanto la Fiat annuncia: nessuna chiusura di impianti in Europa, piuttosto Fiat tenta la strada del rilancio puntando sui marchi di prestigio, Alfa, Maserati e Jeep che dovrebbero generare guadagni elevati e quindi sostenere le perdite nel settore generalista messo a durissima prova dalla «guerra dei prezzi e dalla concorrenza . Un sentiero stretto che passa attraverso altri 24-36 mesi in rosso, perché prima «del 2015-2016» le attività europee non raggiungeranno il punto di pareggio». Nel frattempo sarà necessaria un’azione sulle fabbriche italiane per riorganizzare la produzione da destinare all’export in accordo con le parti sociali. Come a dire: gli operai sono la palla al piede, su di loro bisognerà intervenire, “con l’accordo delle parti sociali”, negoziando, che da una parte ci sono i benefici per un azionariato sempre più rapace e dall’altra i lavoratori sempre più disoccupati. E indovinate chi vincerà il braccio di ferro.

Nel mese di giugno l’ineffabile Fornero si compiacque che erano diminuiti gli incidenti sul lavoro quelle che vengono pudicamente chiamate morti bianche. Ma come è noto la signora non è forte in aritmetica e non aveva inteso che forse il dato incoraggiante era attribuibile alla decremento dell’occupazione e alla diminuzione delle denunce di incidenti, grazie invece all’aumento del lavoro nero e della loro auspicata “flessibilità”. E non aveva contato i morti di terremoto nei capannoni emiliani. E a essere pignoli, anche i suicidi di chi il lavoro lo ha perso. Tanto che l’Inail ha ricordato che nel 2011 le morti bianche sono state 930: 40 in meno rispetto al 2010, «un dato obiettivamente non confortante, ancora meno se messo in correlazione alla diminuzione del livello di occupazione».

 

In un assordante silenzio, che nella testa di tutti noi dovrebbe essere interrotto – per non dimenticare – dall’applauso che accolse in Confindustria i manager assassini della thyssen appena condannati, c’è adesso un’impennata, visibile e incontestabile: diminuisce il lavoro e aumentano gli incidenti. Non è un paradosso: la paura di perdere il posto rende imprudenti, il ricatto espone al rischio, la precarietà fa accettare i pericoli. I turni sono più massacranti, nell’evaporazione delle garanzie. La flessibilità rende legali forme moderne  e globali di cottimo. L’Osservatorio Indipendente morti sul lavoro di Bologna denuncia instancabilmente che i numeri sulle vittime sono molto riduttivi:  i decessi sarebbero sottostimati del 25 per cento. E gli infortuni non denunciati sarebbero almeno 250.000, perché non si muore meno sul lavoro semplicemente si lavora meno, o in nero e non vengono calcolati i lavoratori non assicurati: agricoltori pensionati che muoiono sotto i trattori, militari, forze dell’ordine, pendolari, persone che si spostano per raggiungere il luogo lavoro.

 

I colpevoli di queste morti che dobbiamo cominciare a chiamare assassinii,  sono i colpevoli della crisi e gli autori delle soluzioni adottate per affrontarla, avvitati in una spirale perversa. È colpevole la loro ideologia, sono colpevoli gli strumenti messi in campo quanto i valori cui si ispirano:  la decantata flessibilità che ben lungi dal produrre occupazione,  porta invece incertezza, insicurezza, precarietà in una aberrante mutazione della crescita cui viene dato il nome di economia “informale”, informale per non dire casual, per non dire iniqua, per non dire primitiva, per non dire bestiale, se con lo sfruttamento intensivo conduce inesorabilmente alla schiavitù.

 

Si, la chiamano economia informale, indicando pudicamente l’attività economica svolta al di fuori di qualsiasi legge che regoli le attività produttive, in assenza di diritti e in regime di elusione della protezione sociale, in condizioni fisiche e ambientali spesso mediocri o pessime. Sarebbe doveroso  chiamarla illegale o almeno irregolare, ma è stata legittimata nel Terzo Mondo e si avvia ad esserlo anche qui, dove si colloca comodamente in un contesto in cui non esistono quadri giuridici o di controllo entro i quali si definiscano e agiscano il lavoro e la condizione di occupato.  E si applica alle relazioni industriali  una formula mutuata dal commercio e dalla finanza,  quella secondo la quale la competitività si fonda sul trasferimento delle produzioni, sulla delocalizzazione per sfruttare al meglio il livello bassissimo dei salari e l’assenza di tutele e protezioni. Andando in paesi dove il costo del lavoro è minimo allo scopo di massimizzare il rendimento dei profitti e di poter vendere a prezzi bassi i loro prodotti negli stessi paesi d’origine, estromettendo dal mercato la concorrenza che non ha de localizzato. Così come creando un Terzo mondo interno, aggredendo le  condizioni di lavoro e di vita di quelli che restano nel proprio paese: perché si dovrebbe delocalizzare, spendere in trasferimenti, quando è possibile meridionalizzare e “terzo mondializzare” casa propria, trasformandola in una colonia penale dove il lavoro è ridotto a servitù, il salario a mancia e i diritti a oggetto di cattiva memoria?

Il  lavoro “informale” e assassino si sta estendendo come un contagio nei sistemi economici avanzati, incrementando la precarietà, confermando irregolarità, affermando iniquità, aprendo la strada all’illegalità  sciolta e trionfante.

La nuova barbarie continua a costruire  i suoi ponti, le sue ferrovie, a produrre i suoi veleni, a erigere le sue piramidi sotto le quali, con i morti simili a dei cadono gli schiavi. Cominciamo intanto col chiamarli col loro nome: assassini.

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