Licia Satirico per il Simplicissimus

I primi effetti della spending review in materia sanitaria hanno il sapore amaro della catastrofe: quella annunciata dei settemila posti letto che evaporeranno dal 2013, e quella immediata della deriva farmacologica. Quando il ministro Balduzzi alla vigilia di Ferragosto ha varato la rivoluzione della prescrizione del “principio attivo” nelle ricette, tra le polemiche di molti pazienti e di tanti medici, ha minimizzato gli effetti collaterali della novità legislativa nelle sue dichiarazioni-bugiardino al Messaggero: «di fronte a qualche difficoltà, nel nome dell’alleanza fra medico e paziente è essenziale puntare ad un approccio persuasivo per la risoluzione dei problemi. È importante che la nuova norma venga applicata con saggezza ed equilibrio».

Balduzzi annunciava lo sdoganamento dei farmaci generici come un’occasione di risparmio per le famiglie: «secondo le nostre stime, acquistando farmaci dal brevetto scaduto invece che quelli equivalenti le famiglie italiane spendono circa 800 milioni in più ogni anno. Ricordo che già ora il sistema sanitario nazionale rimborsa a chi acquista un farmaco con il brevetto scaduto solo il costo di quello equivalente». Il ministro taceva sulla questione fondamentale dei farmaci non sostituibili: quelli che, una volta iniziata una terapia, non possono essere più cambiati. I farmaci non sostituibili, fino alla rivoluzione ferragostana di Balduzzi, erano interamente rimborsabili, senza alcun aggravio di spesa per i malati. Troppo bello per essere vero: occorreva cominciare ad invertire l’approccio persuasivo nella risoluzione dei problemi, per usare l’antilingua bugiardina del ministro.

Lo scorso 17 settembre l’Agenzia Italiana del Farmaco ha prontamente inserito nelle liste di trasparenza, che permettono di usare il prodotto generico, le specialità medicinali contenenti Levetiracetam e Topiramato, alla base dei farmaci antiepilettici. L’effetto immediato di questa inclusione è stato devastante dal punto di vista economico per migliaia di malati di epilessia: dallo scorso mese di settembre, il costo aggiuntivo di una confezione di Keppra o Topamax (da cinquanta a cento euro a scatola) è interamente a carico del paziente in molte regioni italiane. Il Keppra e il Topamax non possono essere sostituiti con farmaci equivalenti senza rischi gravissimi di complicazioni. Il Servizio Sanitario Nazionale sostiene che il rimborso è a carico delle Regioni, ma le Regioni glissano. L’Aifa, pilatescamente, sostiene di aver invitato le aziende produttrici ad abbassare i prezzi, senza ottenere – chissà perché – significativi riscontri. Fatto sta che ciò che prima era gratuito ora è a pagamento, con dubbi risparmi per le famiglie italiane.

Molti di noi conoscono il Keppra o il Topamax, anche se preferirebbero non averne mai sentito parlare: prevengono le crisi convulsive degli epilettici e dei malati di tumore al cervello, consentendo loro di condurre una vita pressoché normale. Grazie all’Agenzia nazionale del farmaco e alla latitanza ontologico-finanziaria delle Regioni, curare l’epilessia è diventato un lusso.
È però ora di spending review anche per i lussi e l’Aifa, nel frattempo, ha colpito ancora. Dal 3 ottobre scorso, molte migliaia di malati afflitti da patologie della retina non possono più curarsi: l’Avastin, farmaco insostituibile usato senza problemi in tutti i reparti oculistici del mondo per rallentare la maculopatia, è stato estromesso dalle terapie oculistiche. Il pretesto addotto dall’Agenzia italiana del farmaco è una potenziale tossicità, già da tempo conosciuta ma ritenuta innocua per le dosi oculari. Anche l’Avastin rientrava tra i prodotti farmaceutici non rimborsabili ma, per curiosa coincidenza, costava poco: il verdetto di cecità viene pronunciato da ciechi che vedono.

Sono passate solo poche settimane dall’avvio della spending review in materia sanitaria e già la qualità della vita di epilettici e ipovedenti è precipitata. A chi toccherà la prossima volta? La cosa più odiosa di una “revisione di spesa” che passa sulla propria pelle è il tipo di scelta che si è costretti a subire: “o la borsa o la vita” avrebbero detto i rapinatori d’altri tempi, quasi gentili nell’indicare un’alternativa al male estremo. Adesso la borsa non basta più, anche perché è drammaticamente vuota.
La ricerca disperata del farmaco salvavita passa attraverso internet o lunghe liste d’attesa, nel timore di diventare un peso per la propria famiglia e persino per se stessi. Se i pareggi di bilancio e la precarizzazione del lavoro sono una forma palese d’iniquità spacciata per sacrificio, la pena di sopravvivere alle malattie nel tempo della spending review è un oltraggio alla nostra umanità dolente: per rimanere senza lavoro e senza speranze è preferibile restare in perfetta salute.