Anna Lombroso per il Simplicissimus

Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo, recita uno degli incipit più folgoranti della letteratura.
Ma una disgrazia invece accomuna le famiglie italiane, la percezione che ne ha il ceto dirigente: quella politica che sopravvive nelle distanze siderali del privilegio e delle rendite consolidate attraverso il compromesso e l’ottusa accettazione di qualsiasi pressione pur di conservare privilegi mediocri, per non parlare di quella nefanda tecnocrazia a mezzadria tra servitù al padronato globale e prepotenza tracotante sui deboli.

Può essere illuminante l’evento di punta, organizzato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le politiche della famiglia – e dalla Provincia autonoma di Trento e intitolato il Festival della Famiglia. Ma magari fossero solo canzonette. Il Festival invece si propone di “indagare sul ruolo svolto dalla famiglia all’interno della società e di indicare percorsi innovativi a sostegno delle politiche familiari” con tre giorni di conferenze, stand espositivi, laboratori, spazi di animazione, mostre, fiabe, film, proposte editoriali per parlare di famiglia a 360°. “Alto il profilo dei relatori e dei rappresentanti istituzionali, recita il programma, con il ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione con delega alle politiche per la famiglia, Andrea Riccardi e il presidente della Provincia autonoma di Trento. Confermata anche la presenza del presidente del Consiglio Mario Monti e del sottosegretario alla Pubblica istruzione Marco Rossi Doria.

L’edizione entusiasticamente neo-liberista del Family day berlusconiano delizierà i presenti con la festosa alternanza di modernismo e tradizione: si “testerà la efficacia del family audit (sic)” ma si darà anche vita alla quarta edizione della mostra “Foto Famiglia”, raccolta di fotografie tratte dagli album di famiglia, che racconta i momenti più intimi e importanti della vita degli italiani, dalla data storica dell’Unità d’Italia fino ai primi anni ’60. E si avvicenderà futurismo, con il pomeriggio dedicato a “smart cities e digital-divide”, per coniugare i nuovi modelli organizzativi e colmare la distanza fra genitori e figli, e nostalgico passatismo, perché nel solco delle belle e antiche usanze propagandistiche che vanno per la maggiore in periodi pre-elettorali, il Festival serve a presentare con gran pompa il Piano nazionale per la famiglia varato dal Governo italiano, perché, recita lo slogan del festival, se cresce la famiglia, cresce la società.
Eccoci serviti, come al solito quando tutte le cassette degli attrezzi, tagli, tasse, annientamento dello stato sociale, cancellazione dei diritti e delle garanzie, si rivelano insufficienti, si fa ricorso alla buona volontà popolare, al ripristino dei patti generazionali devastati dalla politica dell’inimicizia varata dal governo, e alla valorizzazione di quella coesione e solidarietà fino a oggi irrise e cancellate.
Siamo passati da Ok il prezzo è giusto, dal Mulino Bianco, dai ricevimenti di matrimonio officiati nei centri commerciali, le cattedrali dei consumi, alla criminalizzazione delle famiglie spendaccione, alle misure penitenziali e punitive di un popolino frivolo e scriteriato che ha vissuto al di sopra delle sue possibilità. Prima nelle famiglie, nelle loro abitudini e nei loro risparmi risiedevano quei fondamenti sani che dovevano esimerci dagli effetti della crisi. Poi eccole diventate un onere parassitario, da educare e punire con una perversa pedagogia, da colpire nelle sue componenti più gracili e vulnerabili, anziani, bambini, invalidi, malati, fastidioso fardello, urticante ostacolo alla realizzazione di una società moderna, tecnologica, insomma “smart”.

Eh si, il Festival vuole proprio galvanizzare quei nuclei accidiosi e renitenti per convertirli all’entusiastica adesione a un modello di “privatizzazione” anche della famiglie, ridotte a enclave, a atomi autosufficienti e affamati, nei quali soprattutto le donne saranno incaricate di assistenza, istruzione, cura, che tanto di lavoro non ce n’è e così stiano a casa, se riescono a conservarla, e si rendono utili alla società, sostituendosi ad essa nei suoi obblighi imprescindibili, pronte anche all’estremo sacrificio di donare le fedi alla patria.
Perché poco ci manca che dopo aver sottratto la sovranità allo Stato e la determinazione al popolo, dopo la rivelazione che l’Europa non regge nemmeno come sodalizio monetario, si riproponga ai cittadini qualche mito nazionalistico cui appoggiarsi stancamente, in mancanza di altre visioni del futuro, già anticipato dalla burbanzosa rivendicazione da parte di Terzi del diritto dell’Italia a giudicarsi da sé i suoi marò, come dall’indegna e ostinata pertinacia nel considerare irrinunciabili le spese per gli armamenti. La storia non ci insegna niente pur avvitandosi tragicamente su se stessa e sulle sue odiose attitudini: ma un certo modo di parlare di famiglia, una certa indole a caricarla di obblighi che spetterebbero alla società nel suo insieme, un certo istinto marrano a chiedere responsabilità di individui più che di cittadini combinato con una irresistibile tendenza ad invadere poi i loro ambiti personali, le loro inclinazioni e le loro aspirazioni, puzza terribilmente di autoritarismo, sfruttamento, repressione .. e guerra, quella tremenda irreparabile cura per le economie malate, che fa morire uomini e speranze.