Anna Lombroso per il Simplicissimus

Miami Vice. Folgorante scoperta di Saviano: il traffico di droga sarebbe il core business della criminalità organizzata. Per apprendere questa sorprendente realtà è andato negli Stati Uniti – ma gli suggeriamo anche un viaggio della memoria in Colombia – dove importanti autorità di polizia gli avrebbero riservato questa rivelazione a sbalorditiva, tanto che è là che pubblicherà il suo libro intitolato Cocaina. Ma pensa anche a noi, rendendoci partecipe con repentina tempestività della sua agnizione, quarantina d’anni dopo i primi digiuni radicali e manifestazioni di semplice buonsenso di molti di noi, dichiarandosi per la liberalizzazione delle droghe leggere, come misura di contrasto al monopolio mafioso.

Per carità ha ragione, ma c’è da sospettare che la visione che le autorità statunitensi hanno della malavita e dei suoi brand sia, come dire? un po’ arcaica, se non annovera anche le attività criminali economiche più creative, quelle finanziarie che non la fa poi distinguere più che tanto dall’alta finanza di wall street. Indagini e bestseller di successo fanno affezionare un po’ troppo ad una interpretazione, così diventa un chiodo quando non un pregiudizio che fa perdere di vista processi in corso, nuove realtà, che, nel caso della criminalità, seguono o meglio anticipano tendenze con piglio lungimirante. Organizzazioni più leste dei governi e delle imprese determinano ricambi e rinnovano equilibri, rivolgono attenzione a settori trainanti “puliti”, agendo in modo da falsare la reale portata “profittevole” degli investimenti, secondo un gioco che non permette di capire se realmente un nuovo filone sia frutto di un’esigenza consolidata o potenziale del mercato o sia invece una vena aurea utile per immettere denaro sporco e farlo girare dietro la facciata di operazioni legali. Ed infatti la finanza creativa e immateriale, il gioco d’azzardo dei derivati, dei fondi, che segue le stesse regole è uno dei settori di espansione di nuovi e vecchi attori del malaffare.

Si le mafie sono dinamiche, la droga resta un brand strategico anche perché si integra con altri “settori” portanti, prostituzione, traffico di armi, commercio di clandestini, e “fa cassa”. Ma se da un lato resta invariata la capacità di infiltrazione nei comparti tradizionali, edilizia, grande distribuzione commerciale, sanità, la criminalità “vuole sognare”, pensa in grande e guarda lontano al grande business. Nell’ultima relazione sulla politica dell’informazione per la Sicurezza presentata dal Governo al Parlamento si legge: “ nel mezzo di una fase di forte recessione economica – condizione di per sé propizia per le attività di usura e riciclaggio – un’ulteriore prospettiva di rischio è rappresentata dalla possibilità che i profitti derivanti dai traffici illeciti gestiti dalle organizzazioni criminali possano confluire nei capitali sociali di istituti di credito in via di costituzione”. Si le loro banche saranno “differenti” ma non poi troppo. E infatti la relazione continua: “ciò oltre a rappresentare un pericoloso inquinamento dei mercati bancari e finanziari, può determinare da parte della criminalità – eventualmente mediata attraverso società schermo residenti nei paesi offshore –l’acquisto di rilevanti quote dell’economia reale, fino a ricomprendere società di interesse strategico per l’economia nazionale”. Così, racconta nel suo libro “Soldi sporchi” Pietro Grasso, crediti interbancari sono stati finanziati grazie a fondi provenienti da traffici non sempre illeciti che hanno salvato molte banche. Inconsapevoli? Non credo. Il riferimento è al crac di Lehman Brothers: a fronte di debiti per 1400 miliardi di dollari, un bell’aiuto sarebbe venuto per il mondo della finanza allegra dal gradito contagio di oltre 350 miliardi di soldi “tossici”.

È che in una sorta di mefitico potere sostitutivo le attività “legali”, una volta unicamente terreno di investimento e coltivazione ideale per il riciclaggio dei proventi illeciti, si sostituiscono o integrano quelle illegali: le mafie promuovono nuovi business con l’intento di trarne profitto diretto, disponendo di grandi mezzi, potenza organizzativa, risorse umane preparate e competenti e robusti apparati tecnologici. Primeggiano negli appalti, ma comprano intere vendemmie di uve pregiate e linee di abbigliamento, acquisiscono il know-how di piccole imprese creative, con un spirito di iniziativa che sarebbe invidiabile se non suscitasse orrore e sdegno. Orrore per la loro potenza, sdegno per le complicità esplicite o implicite, se la penetrazione nei gangli vitali della società avviene attraverso gli interstizi colpevoli lasciati liberi di essere occupati nella pubblica amministrazione, quando non è correa, attraverso lo smantellamento progressivo del sistema antimafia, attraverso la “presa” di settori pubblici abbandonati nelle loro mani, dai rifiuti al gioco d’azzardo, attraverso alleanze opache con la politica “infedele”, ma anche grazie a una ideologia che attribuisce un primato inequivocabile al denaro, pecunia non olet, così che per un ex ministro la mafia è un motore dell’economia, un sistema creditizio è quanto mai prudente nelle operazioni di rintracciabilità, un governo finge di non sapere che la criminalità economica non è solo circolazione dei quattrini della droga, ma si nutre di corruzione ed evasione favorita dall’impoverimento dei sistemi di controllo, da scudi e condoni.

Qualcuno parlando di mafie le ha definite un fenomeno a “sviluppo indisturbato” cui è stata contrapposta l’”inazione ottimale”, limitando il contrasto ad azioni di polizia necessarie, ma non incidendo sull’intreccio che le tiene vive e potenti, quello con la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, le istituzioni. Non basta alzare la tela per svelare i retroscena e gli usi delle mafie, occorre dispiegare forza, denuncia e azione per identificare quello che di mafioso c’è nel tessuto sociale del paese: l’inclinazione a affidarsi al potente per essere protetti, per regolare la concorrenza e accedere magari a diritti che diventano sempre di più elargizioni; o ad offrire acquiescenza e ubbidienza in cambio di un qualche distillato di benessere; o a chiudere un occhio opportunista e interessato più che indulgente, sulle pratiche diffuse e generalizzate di comportamento illegale, sempre più tollerato e sempre più imitato. Bisogna aver paura del padrino o del picciotto che c’è intorno e dentro di noi.