Anna Lombroso per il Simplicissimus

Anna Lombroso per il Simplicissimus

L’Italia è sempre stato un Paese tragico nonostante che le nostre maschere, attraverso le quali siamo conosciuti dagli stranieri siano maschere comiche, il servo contento e il padrone gabbato. Con buona pace di Bobbio dobbiamo proprio aver raggiunto l’acme della tragedia, i servi sono stati gabbati, ma forse non sono abbastanza scontenti se le quotidiane bravate dei governanti, quelle sessuali o quelle asociali, se l’orgia del potere che si declina in misure e oltraggi verbali e fisici, sembrano scuotere per un paio di giorni gli animi “progressisti”, per poi vederli quietati, forse per il rapido e regolare susseguirsi, forse perché l’assuefazione alla peggiore sfrontata bestialità è fenomeno antico e ci si sveglia solo quando sono sfiorati o investiti i nostri interessi, che ormai nemmeno più la combinazione di lutto e spettacolo sembra colpirci più di tanto.
E il mantra degli stessi “progressisti” è sempre “ma mica rimpiangerai Berlusconi, ma non avrai mica nostalgia della Gelmini, o Tremonti, o Brunetta”, come se dovessimo consolarci del paragone tra grottesco e infame, come se nel prima e nel dopo non consistessero gli estremi insieme ridicoli e infami.

È che se le modalità raffazzonate, improvvisate, cialtrone, incompetenti e inadeguate della Gemini o di Balduzzi apparentemente differiscono, l’ideologia delle disuguaglianze che muoveva e anima le azioni di maestrine occasionali o sussiegosi professori è la stessa, che vogliano beneficare festose monachelle o accademici della computisteria.
E li accomuna anche una certa inclinazione al paradosso, a cominciare dalla loro improbabile presenza in un governo. Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti nel segno della ottusa e improvvida continuità, si avvale dell’istituto della “partita di giro” sottraendo risorse alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Per “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa, si dice, sottintendendo che stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma volendoci persuadere che la sconcertante conversione dei tagli in efficienza vale solo per il settore pubblico, che quello privato avrebbe in sé il codice genetico della funzionalità e efficacia, corollari fisiologici del profitto.

Lo svuotamento umiliante dell’istruzione pubblica, della ricerca e della cultura procede inesorabilmente da oltre di dieci anni, costante indipendente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici, irridendo ragione e intelligenza se la disoccupazione giovanile veleggia verso il 40%, e infamando la nostra storia nazionale e una tradizione di ottime scuole pubbliche mortificate per creare artificialmente la domanda di un mercato educativo privato. E dire che questo governo di rampolli dorati della Bocconi e della Luiss che sbagliano i conti e che devono farsi aiutare da contabili più tecnici di loro, sembra proprio un contro-spot, dissuasivo della bontà della ricetta pedagogica commerciale.
Profeticamente, in un paese segnato da una chiesa troppo forte in un Stato troppo debole, Calamandrei aveva illustrato la strategia bellica condotta contro la scuola pubblica: «L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico… Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione… Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito».

La teocrazia del mercato serve due chiese, quella apostolica romana che vuole imporre la sua morale come etica pubblica e quella del profitto avido che esige ubbidienza al pensiero unico dell’ambiziosa inestinguibile rapacità, indissolubilmente intrecciate per il perseguimento del loro interesse.
Così i timori di Calamandrei sono diventati realtà, i rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali, sono sempre più impari, per non parlare di quelli di classe se un sedicente governo tecnico può essere tanto spudoratamente di parte oltre i partiti, da introdurre la più pesante delle discriminazioni, favorire le leggi del mercato su quelle della conoscenza.
E d’altra parte si tratta dell’esecuzione osservante e docile del mandato della loro ideologia, imporre finalità, obiettivi e perfino visioni del futuro secondo schemi che non sono più quelli dell’emancipazione umana, del primato del pensiero e della ragione, dell’inarrivabile superiorità della conoscenza, attribuendo la supremazia alla sfera economica con la sua interpretazione monolitica e ottusa della complessità del nostro tempo.
Il governo Monti è un governo “armato” in guerra contro lo Stato cui vuole togliere in nome dei suoi mandanti, sovranità economica e cui ha tolto già quella democratica, secondo una ideologia che vuole meno idee, meno indipendenza di giudizio, meno saperi e più competizione, più concorrenza e più incentivi all’arrangiarsi con ogni mezzo anche illecito.
Ma non ci convinceranno che la loro visione del mondo sia naturale e nemmeno inevitabile. È una visione brutta. E se è vero che la bellezza non fa la rivoluzione, viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei.