La “soluzione” della camere di sicurezza nei posti di polizia non è servita a nulla

Licia Satirico per il Simplicissimus

«È tempo di mettere mano a una seria riforma del sistema penitenziario, ma sarei una sognatrice se pensassi di poterlo fare con le forze che mi accompagnano e con i tempi brevi di questo governo»: con queste parole sei mesi fa Paola Severino commentava il decreto “svuota carceri”, che ampliava i casi di detenzione alternativa al carcere rinchiudendo nelle camere di sicurezza delle questure i fermati in flagranza per reati minori.

Vale la pena verificare se e quanto le carceri si siamo effettivamente “svuotate”, o almeno se i sogni realistici della Guardasigilli siano asfittici come le famigerate camere di sicurezza. Secondo dati del Ministero della giustizia aggiornati al 30 aprile 2012, la capienza regolamentare dei 206 istituti penitenziari italiani è di 45756 posti, a fronte di una popolazione carceraria effettiva di ben 66310 persone. A ottobre 2011 la capienza era di 45572 posti per una popolazione di 67510 persone. Il numero dei posti è aumentato di appena 184 unità e la popolazione carceraria in eccesso conta 1200 persone in meno rispetto a ottobre. Il numero delle eccedenze resta però esorbitante: 20554 detenuti “pleonastici” continuano a essere stipati in strutture inadeguate, nell’attesa dell’avvio della discussa edilizia penitenziaria privata.

Un terzo dei reclusi è di nazionalità straniera: il dato resta costante nel tempo, per l’evidente difficoltà di applicare agli stranieri molte forme di detenzione alternativa al carcere. I detenuti in attesa di giudizio sono 13307 (a ottobre 2011 erano 14000), mentre quelli condannati in via definitiva sono 38244.
Nelle statistiche ministeriali manca il dato silenzioso e ingombrante di chi in carcere muore. Le cifre sono degne di un pogrom: soltanto dal 2000 ai primi sei mesi del 2012 le morti in carcere sono state 2013. Le cause sono raggelanti: circostanze misteriose, assistenza sanitaria disastrata, overdose e suicidi. Sono 718 i detenuti e gli agenti di custodia che si sono tolti la vita negli ultimi dodici anni: 26 sono i suicidi dall’inizio del 2012, nell’era del “vuota carceri”. Nelle carceri italiane le morti violente avvengono con frequenza quattro volte maggiore rispetto agli istituti penitenziari statunitensi e il livello di attenzione di forze politiche, istituzioni e opinione pubblica resta bassissimo, marginale, elitario. Eppure la media dei suicidi in carcere è di uno ogni cinque giorni.

Eppure già da due anni il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha cercato, con inutili circolari, di prevenire gli esiti disastrosi della combinazione tra sovraffollamento carcerario e severità del regime detentivo. Eppure persino il Comitato Nazionale di Bioetica ha espresso nel 2010 un parere sconosciuto sul suicidio in carcere.
Custodire dovrebbe significare prendere in cura, prima che internare. Il disagio delle carceri italiane coinvolge, non a caso, anche i custodi, travolti spesso dalla disumanità delle condizioni su cui sono costretti a vigilare con risorse sempre più esigue. È la spending review che ci chiede sacrifici, che taglia giustizia sanità scuola pubblico impiego senza toccare le spese militari e le sacche di privilegio.

Il ministro della giustizia è altrove, distratto dai pensieri fissi su corruzione, concussione smembrata, intercettazioni e responsabilità civile dei giudici. La riforma seria del sistema penitenziario, dopo il pannicello natalizio del vuota-carceri, è rimandata ad altri tempi, ad altro governo, ad altra sensibilità. La Guardasigilli, si sa, non è una sognatrice. Noi lo siamo e continuiamo a pensare a una riforma penitenziaria possibile, che non riduca a brandelli gli scampoli di umanità residui e dia alla pena un senso. Noi abbiamo ancora negli occhi le immagini dello splendido “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani e crediamo che la vita dei detenuti meriti molto più delle negoziazioni sul processo Ruby. Noi, del resto, siamo solo sognatori, mica ministri.