Anna Lombroso per il Simplicissimus

Sgranando i nomi degli ammazzati dalla mafia tocca dolersi perché sembrano essere gli ultimi dei giusti. E ci si duole che la memoria si limiti a una stanca liturgia seriale, chè ormai ognuna delle stelle polari del nostro pensare agire e sperare si riduce a una giornata commemorativa: libertà, lavoro, diritti anche quelli più ardui, sapere. Presto avremo una giornata della scuola, che la si ricorda quando ci piazzano una bomba davanti. E la giornata della vita ci ricorderà quando eravamo libere di scegliere una strada impervia e crudele ma ineluttabile e non voluta.

A vent’anni da quel tuono di 400 chili di tritolo che per molti è scoppiato dentro a ricordarci che quelle che credevamo fanciullesca innocenza era una separata indolenza, quel rombo risuona e replica misteri, rievoca e ripropone paura, richiama domande e sospetti senza risposte o troppe risposte.

Quello scoppio di sabato intorno al quale circolano copioni troppe volte messi in scena ha provocato l’insulso e altrettanto criminale gioco delle ipotesi e dei depistaggi,  dei soliti sospetti e del divismo mediatico, del temibile voyerismo e della retorica dell’onore dei padrini,  della potenza del terrore, implacabile e invincibile, con il quale calare il sipario impenetrabile dietro al quale viene celata la verità.

Oggi sono andati tutti a Palermo, in una di quelle inevitabili gite sociali del ricordo che hanno l’effetto di una lapide che lo seppellisce. Sono gli stessi che stanno altrettanto disinvoltamente seppellendo la Dia, che proprio Falcone aveva costituito per contrastare la mafia ad armi pari, per risorse e competenze, sono gli stessi che ci coprono di ridicolo nel contesto internazionale non adottando le convenzioni in materia di corruzione, sono gli stessi che chiedono sacrifici ai cittadini, ma tutelano gli opimi evasori con scudi, condoni,  perdonanze  e licenze, sono gli stessi che vanno a esaltare la legalità ma la commemorano come un vecchio attrezzo, abbattendo l’edificio di leggi e diritti  che “fanno” la giustizia, con leggi ad personam, l’impalcatura di privilegi e arbitrarietà, sono gli stessi che vanno a rappresentare lo Stato, ma lo hanno espropriato della sovranità, ferito la Costituzione che è la sua carta fondativa, gli hanno tolto ogni potere in materia economica per favorire una sua privatizzazione insieme a quella dei beni comuni, delle nostre bellezze d’arte e di cultura, della scuola, della salute.

Sono andati a Palermo, sono gli unici a pensare ancora  – si è persuasa perfino la Lega che non è così –  che la criminalità economica  sia quella della mafia, dei padrini, di quelle stragi “griffate” secondo un codice di uomini d’onore. Che sia un fenomeno di quel Sud che da anni hanno abbandonato a una  disperazione non più temperata dall’assistenzialismo, consegnato alle opache alleanze di amministratori pubblici, imprenditori e malavita. Sono rimasti loro a pensare che la crisi si risolva imponendo rigore a chi  è imputato di aver vissuto al di sopra delle possibilità, quando ci sono territori nei quali si poteva contare solo su protezioni criminali, quando l’emancipazione poteva venire solo dal lavoro, dall’equità, dalla libertà al posto della condanna a dipendere dal malaffare, dalla morte, dalla schiavitù.

C’era un tempo nel quale alcune popolazioni italiane erano compiaciute di aver vinto a quella lotteria naturale che aveva consentito loro di nascere e vivere nelle propaggini dell’Europa opulenta, regioni affini al grasso Belgio, mentre altri erano “separati”, in quello che Croce definiva un “paradiso abitato da diavoli”, dove regnava un cupa grandezza arcaica, quella della criminalità fieramente tenace nella pretesa di una costruzione autonoma di ordinamenti incivili opposti alla legittimità di quelli statali.
Ci ha pensato la crisi economica, sociale, politica e morale a rendere manifesta la minaccia della riunificazione tardiva della nazione in un unicum aberrante, un “Mezzogiorno d’Europa”, centro cruciale e vulnerabile della grande rete della criminalità mondiale. Solo chi preferisce non sapere non vedere non parlare in una diretta o indiretta acquiescenza da  tre “scimmiette” vuole nascondersi che la criminalità organizzata si è insinuata negli interstizi finanziari, si è collocata, con il favore di molte insospettabili complicità, negli ampi alvei della corruttela in tutto il Paese.

Non vuole riconoscere che siamo  usciti dalla letteratura dei padrini e picciotti, quella narrazione  che ha gratificato noi, gli onesti, compiacendoci delle nostre certezze, delle nostre liturgie, dei convegni, delle commemorazioni, dei libri, delle analisi. Mentre loro, i criminali, agiscono nell’impunità mirando a profitto e potere con procedure e metodi che si sono profondamente innovati: attività imprenditoriali collocate nell’economia reale attraverso un intreccio di partecipazioni azionarie, joint venture, investimenti immobiliari, nel quale il traffico di droga è solo una voce di profitto rispetto al controllo soffocante sulla spesa pubblica.
E è cambiata la fisionomia dei loro “amici”: una volta quelli che favorivano, proteggevano, coprivano, restavano nell’ombra, fuori dall’organizzazione. Oggi ne sono un pezzo, partecipano in prima persona e a pieno titolo primari, amministratori, parlamentari, commercialisti, banchieri o bancari, operatori in doppiopetto e colletto bianco, capaci di coprire tutte le esigenze della filiera malavitosa: sparare, riciclare, progettare, approvare, firmare, mettere in cima o in fondo alla pila di permessi, fatture, autorizzazioni.

È cambiata la territorialità e anche la mappa del capitalismo mafioso e criminale, i suoi teatri e i suoi luoghi. Passa dall’economia del racket, dell’estorsione, del contrabbando, del controllo della prostituzione, del traffico della droga, ai nuovi comparti: ciclo dei rifiuti, cantieri autostradali, convenzioni sanitarie, rifacimenti delle reti ferroviarie, cantieri di carceri e caserme, centri commerciali, bretelle autostradali. Ma anche l’Expo, i finanziamenti comunitari, il borsino dei precari e le cooperative sociali.
Boss meno innovativi sono stati stato arrestato nei loro paesi, è vero, con  spettacolari operazioni  a orologeria.  Ma il camorrista costruttore, imprenditore, il suo commercialista creativo vantano una rete di relazioni estesa e ubbidisce a comandi vicini e lontani , ben oltre l’area di influenza dei Cosentino, dei Cesaro, dei Tarantino, dei Lavitola e dei loro amici importanti, ben oltre i suoi interlocutori autorevoli.

Sono tutti a Palermo oggi,  ma la potente e influente  criminalità economica che condiziona il sistema degli appalti, le gare, il settore dell’edilizia, quello dell’energia, i cantieri, le discariche, le attività di movimento terra e la gestione della cave, aree dove vengono monitorati i più cospicui flussi di denaro sospetto, ha compiuto la vera internazionalizzazione in vista di quella globalizzazione che ai cittadini ha portato solo disuguaglianze e perdita di democrazia. Esporta e importa pratiche  malate  e poderose  di illegalità, facilitata   dal rimescolamento di pubblico e privato che ha eroso l’autorità delle istituzioni, esaltato dall’impoverimento generale a detrimento del senso della legge e di quello della giustizia anche sociale, promosso dall´incremento dell´evasione fiscale dalla pratica trasversale e ormai strutturale della corruzione in una specie di divorzio tra governo della legge e governo delle convenienze, dove per governo delle convenienze non deve intendersi ciò che è prudente o necessario per il bene dei Paesi, ma ciò che è utile al fine di consolidare o proteggere opachi legami di potere e interesse tra individui o gruppi sociali.

A questa cupola si addice la crisi, si addice il disordine, si addice il terrore. Li impiegano per la loro potenza ben superiore a quella del tritolo, una potenza immateriale che circola maligna a Palermo e dentro di noi. è che per contrastarla basterebbe essere civili, ma pare ormai che la civiltà come la libertà sia solo roba da eroi.