Non appena Beppe Grillo ha parlato di uscita dalla moneta unica, subito si è alzata una canea contro il molesto populista che irresponsabilmente agita temi delicati e riempe le piazze di cachinni per strappare voti ai partiti disperatamente impegnati ad essere responsabili. Ed è vero, l’ex comico palpeggia e seduce gli umori, mette quintali di erba nel fascio della retorica gridata, ma in questo non è certo più populista delle forze politiche, diciamo così tradizionali, attaccate ai pendenti di Monti così strettamente da farne parte integrante: le grida e i vaffa di Grillo sono demagogia allo stesso modo in cui è demagogia il tabù sull’euro innalzato dai partiti.

In primo luogo perché rimanere o uscire dall’euro è solo in parte qualcosa che dipende dalla volontà del Paese, ammesso e non concesso che essa abbia modo di determinarsi in questa sospensione delle dinamiche democratiche. E in secondo luogo perché questa prospettiva è  tutt’altro che remota. Non sono io a dirlo, ma l’Fmi, il quale nella sua ultima sfornata di numerologia, pone serie ipoteche implicite su questa possibilità:  da una parte il Fondo monetario osserva che dal 2008 l’Italia ha il record nell’avanzo primario* e calcola che si manterrà alla testa di questa schiera virtuosa fino al 2017. D’altra parte però è anche vero che nello stesso periodo il suo pil si sarà ridotto complessivamente dell’ 1,7% a fronte di aumenti che vanno dall’ 8,8% della Germania, al 10% della Francia, fino ad arrivare al 116% della Cina. Con queste cifre è impensabile poter rispettare il fiscal compact, ossia la riduzione del 20% all’anno della quota di debito pubblico eccedente il 60% del pil. E questo senza tenere conto degli impegni correlati, come quelli per il fondo salva stati.

Dal momento che l’euro non è più un riparo dall’alto costo di rifinanziamento del debito, come dimostrano gli spread ormai assestatisi su una media vicina ai 400 e che per contro non favorisce la crescita di un Paese come l’Italia, prima o poi, anzi più prima che poi, si porrà il problema di rinunciare alla moneta unica o di essere governati direttamente da Berlino e dalla Bce, con sacrifici enormi e conseguenze sociali violentissime.

In ogni caso le cifre dell’Fmi erano grosso modo nelle previsioni  e nella prevedibilità già da un anno abbondante e viene da chiedersi come mai un governo tecnico, certamente aggiornato almeno da questo punto di vista, abbia accettato tutti i diktat senza contrattare nulla e senza opporre a Bruxelles e alla Merkel l’impossibilità pratica di sottostarvi, ammesso e non concesso che le ricette imposte avessero un senso. Una domanda che si fa dolorosamente insistente quando si avverte la volontà di fare poco o nulla contro le spese parassitarie, la corruzione, l’avidità di caste di ogni genere, la grande evasione fiscale, cioè le vere piaghe italiane, mentre si è agito con eccezionale cinismo e rapidità  su pensioni, lavoro e tasse.

Ed è così che arriviamo al quesito reale e non retorico: è’ davvero il risanamento per rimanere nell’euro lo scopo di tutto questo o non è che un pretesto per favorire la liquidazione del Paese tra potentati nazionali e stranieri, la sua collocazione in posizione subalterna dentro un’Europa matrigna dove gli stati sono solamente la maschera di gruppi di potere economico e finanziario? E quando dico subalterna intendo anche dal punto di vista dei diritti, dei salari, del welfare e della civiltà. Insomma un ingresso nella serie B continentale. E’ già accaduto del resto e non solo con la Grecia, ma anche con l’Ungheria: qualcuno a Strasburgo, a Bruxelles o in qualche capitale si è levato a denunciare la trasformazione del Paese in una sorta di semi dittatura? No, anche perché ci sono un mucchio di grandi imprese, soprattutto tedesche (la Bmw tanto per citarne una conosciuta), che hanno tutto l’interesse a regimi in grado di determinare una compressione del lavoro e delle aspettative sociali.

Lo so che uno scenario del genere può apparire irreale: eppure tutte le cifre portano a questo, al punto in cui si dovrà scegliere. E a me pare che anche dietro le ribellioni che serpeggiano e talora esplodono ci sia un istinto che suggerisce di dubitare delle rassicurazioni,  del senso stesso di tutto ci che è accaduto negli ultimi mesi. Ed è avvilente  che su questo ci sia un silenzio di ferro, che debba essere Grillo o qualche pazzo clamans in deserto, a porre la questione all’ordine del giorno. La demagogia più insospettabile è quella del silenzio.

 

*L’avanzo primario del bilancio statale è  la differenza fra la spesa pubblica e le entrate,  esclusi gli interessi da pagare sul debito. Vale a dire  è  la somma disponibile per pagare gli interessi sul debito pubblico ed eventualmente per ridurre questo debito.