Anna Lombroso per il Simplicissimus
Succede a volte a Roma di veder scendere da un macchinone due o tre gradassi, mani sui fianchi e aria perplessa davanti a un parcheggio troppo esiguo per il loro mezzo. Poi uno, il leader, se po’ ffa’ dice e allora uno ferma il traffico, e due in un improvviso affaccendato dinamismo eccoli sollevare le auto che li ingombrano, spostarle mollandole giù con gran fracasso e infilare la poderosa vettura nello spazio che si è creato. Se po’ ffa’ è talmente incoraggiante, promettente, confortante e addensante di entusiasmo e consenso che mutatis mutandis l’ha usato Obama e il diversamente Obama in Italia. Con esiti diversi, ma non si può pretendere troppo, con i nostri scarsissimi giacimenti di leadership presenti sul nostro territorio nazionale.
Ora non si pretende che quel che resta della sinistra si metta a alzare macchine, che acquisisca un ormai dimenticato carisma e neppure che smetta di antipatizzare coi cittadini, cominciando ad ascoltarli e rappresentarli.
Ma guardandosi attorno, poco lontano, potrebbe scoprire che se po’ ffa’, se un candidato grigio, più volte perdente anche per interposta persona, con un appeal pari a quello di un ragioniere del catasto, riesce a appassionare gli elettori tanto da far loro credere che c’è una alternativa non rivoluzionaria, non apocalittica, non disintegrante, ma non per questo meno potente. Capace di scardinare un equilibrio fragile ma inesorabile che condiziona governi, poteri, stati e che sorprendentemente come nel gioco dello shangai o in un castello di carte può crollare se togli una bacchetta o sfili una carta.
È avvilente che nella palude nella quale siamo sprofondati qualcosa cambi solo grazie a choc che arriva da fuori. Ma al tempo stesso è esemplare e dimostrativo che è “possibile”: è possibile votare, non è obbligatorio subire una svolta tecnocratica. È possibile che al voto venga restituito il suo potere, non è ineluttabile che la sovranità popolare appena espressa venga cancellata da misure autoritarie e che un bene comune venga privatizzato. È possibile che disincanto e scontentezza alimentati da un cattivo governo e una cattiva politica evaporino in virtù di un interesse generale, perché non è inderogabile la perdita di partecipazione in favore di un centralismo ottuso e dettato da poteri forti estranei e separati dalla vita dei cittadini. È possibile che qualcuno, un partito, degli uomini che non si vergognano di appartenere a una tradizione storica e di rifarsi a stelle polari irrinunciabili, si convincano e vogliano convincere che esiste una alternativa al primato del mercato, alla sopraffazione della finanza immateriale, alla rapacità cieca e suicida di una ideologia basata sul profitto, perché non è inevitabile accontentarsi di una imitazione di democrazia, dell’accondiscendenza allo smantellamento dello stato sociale in nome della sopravvivenza, soggiacere alle irragionevoli ragioni ricattatorie della necessità, sacrificando diritti e garanzie per la promessa di una crescita aberrante e illusoria.
Monsieur Hollande non ha promesso miracoli: ma si è assunto una responsabilità e un impegno dai quali non credo si esimerà: più uguaglianza nei mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione giovanile, più potere d’acquisto con aumento subito del salario minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli immigrati), con più giustizia redistributiva. Ha dichiarato guerra all’inutile e controproducente rigore dei tagli nei servizi sociali, contrapponendogli la pace di sessantamila nuovi impieghi fra sanità e scuola. Con che soldi direbbe La Fornero? Con con la crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento. E con tagli di alto valore simbolico: un decreto ridurrà del 30 per cento gli stipendi del capo dello Stato, del primo ministro e dei membri del governo. Lo accompagnerà un secondo decreto, con il quale sarà stabilito un tetto alle remunerazioni dei dirigenti del settore pubblico. E la forbice salariale dovrà essere compresa fra 1 e 20. Per essere più chiari: un presidente e amministratore delegato di un’azienda pubblica non potrà guadagnare più di venti volte del suo dipendente meno pagato. E ha dato una scossa alle regole marce e immarcescibili del vecchio notabilato dichiarando finita l’era della cumulabilità delle cariche, con i sindaci ministri e i ministri sindaci.
Non è la rivoluzione, non è nemmeno il new deal forse ma è il segnale inequivocabile della realizzabilità di un approccio alla crisi che non consista solo in una austerità che incrementa disuguaglianze e di un rapporto “contro-egemonico” segnato dall’istinto all’autodeterminazione possibile nei confronti di un’Europa vessatoria che trova un nuovo zelante servizievole cameriere nel nostro Presidente del Consiglio.
Si può fare e si potrebbe fare ancor meglio perché bene o male – forse a nostra insaputa – quelcosa è successo anche da noi, una bella scossa è stata data alla “nuova” destra che Berlusconi inaugurò nel ’94 e che ha tenuto il campo della politica italiana per quasi un ventennio. Bene o male il “miracolo” del Cavaliere consistito nella capacità di coagulare sotto il proprio “carisma” anime diverse, talvolta perfino incompatibili, dando vita a un campo neolib-neocon simile al suo omologo americano marcato Bush più che alle destre europee, ha perso il suo ascendente. E anche gli illusi dalla politica penitenziale del rigore montiano cominciano a tentennare, sotto l’onda disperata del malcontento.
Certo siamo immersi in una terribile fradicia gelatina, come scrive oggi il Simplicissimus, nella quale affondano reazioni vitali soffocate da una stampa piegata ai capricci, alle intemperanze più o meno scandalose e alle inadeguatezze del ceto dirigente.
Ma si può fare, la macchina da spostare è un catorcio sta a noi riprendere la guida.