Anna Lombroso per il Simplicissimus

«Roma non si vende» e «in difesa dell’acqua» erano gli striscioni che aprivano il corteo di ieri contro la vendita del 21% delle quote di Acea, organizzato da movimenti, associazioni e sparuti rappresentanti di partiti politici della Capitale. È il 21% la quota di azioni della municipalizzata che il Comune di Roma vuole mettere sul mercato. Lo chiede la lobby della svendita dei beni comuni – management di Acea, gli azionisti di minoranza Gdf-Suez (12,5%), Francesco Gaetano Caltagirone (16,2%):. Così il Comune di Roma diventa socio minoritario scendendo così al 30% dall’ attuale 51%, detenuto attraverso Roma Capitale. Così che diventino soci minoritari anche i cittadini.

In un celebre passaggio del Manifesto Marx scriveva: «Tutti gli antichi e arrugginiti rapporti della vita con tutto il loro seguito di opinioni e credenze ricevute e venerate per tradizione si dissolvono, e i nuovi rapporti che subentrano passano fra le anticaglie ….Tutto ciò che aveva carattere stabile si svapora, tutto ciò che era sacro viene profanato e gli uomini si trovano a dover considerare le loro condizioni di esistenza con occhi liberi da ogni illusione».
Nel grande disordine sotto il cielo, una illusione comunque, e come tale chimerica a ingannevole, sopravviveva: l’idea di progresso, la narrazione benefica, fondante e fideistica di una umanità in marcia verso l’affrancamento universale, creduta, desiderata, invocata tanto in chiave conservatrice che progressista o rivoluzionaria. Ma che negli ultimi decenni in virtù della potenza economica, ma anche “morale” e mediatica della controffensiva capitalistica quella tenace chimera si è incarnata miseramente nel liberismo, in un progetto di progresso al cui centro si è collocata un aberrante interpretazione della libertà individuale nella dittatura del mercato, con l’eliminazione delle burocrazie, il premio al merito, lo scambio sregolato, la mercificazione e la legittimazione dell’accumulazione come supremi regolatori delle relazioni sociali. I suoi capisaldi – liberalizzazione, privatizzazione, competizione, flessibilità – si sono inoculati anche nella sinistra, hanno contagiato la società, espropriandola dei suoi patrimoni reali e morali. Il risultato è che le generazioni future ben lungo dall’essersi affrancate vivranno peggio delle precedenti, i figli più ricattati dei padri, le figlie più emarginate delle madri, la cultura più impoverita, l’istruzione più avvilita, il territorio più dissestato, l’aria più inquinata e l’acqua meno “trasparente” nella qualità e nella distribuzione, e meno nostra.
È il tempo della rapina, dell’espropriazione, della privazione, della predazione privata di sicurezze, di poteri e di diritti individuali e collettivi.

E proprio per questo dobbiamo muoverci sul terreno più potente della rivendicazione, la battaglia per riprenderci beni comuni. Non per possederli, ché i beni comuni sono “a titolarità diffusa”, sono “patrimonio dell’umanità”. appartengono a tutti e a nessuno: tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Devono essere amministrati muovendo dal principio di solidarietà: incorporano la dimensione del futuro, quindi devono essere governati anche nell’interesse delle generazioni che verranno.
E’ giusto lo slogan della marcia di ieri, un bene come l’acqua non si può vendere, non può essere considerato una merce che deve produrre profitto. I beni comuni contestano il pensiero forte negando l’irriducibilità del mondo alla logica del mercato, segnano un limite, che è poi quello della sostenibilità, non solo quello obbligato dai rischi del consumo scriteriato dei beni naturali (aria, acqua, ambiente), ma anche quello legata alla necessità di contrastare la sottrazione alle persone dei diritti e delle opportunità.

Allo stesso modo devono essere rivendicati con nuovo vigore il bene comune della conoscenza, della formazione pubblica garantita a tutti, un diritto nell’età dello sviluppo che ora si presenta in nuove forme. Ma anche quello alla salute, o all’etere, privatizzato dall’egemonia di mercato, l’aria che respiriamo, gli spazi urbani, la bellezza del paesaggio, il tempo di vita. Quello alle libere scelte dettate dalle inclinazioni, espressione di un bisogno soggettivo degli individui di riscoprire come stare nel tessuto sociale connettivo che li risparmia dalla solitudine e dall’angoscia, senza coartare la loro libertà.
Quelle fiammelle che si accendono in giro e che illuminano il bisogno di una nuova politica mediante un soggetto o un’aggregazione o il coagulo più o meno movimentista di fermenti della società civile, sono alimentate da qualcosa che c’è stato: quel successo grande e inatteso della raccolta delle firme e poi del voto referendario con il quale ventisette milioni di elettori hanno detto no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, all’uso privato della legge; la campagna contro la “legge bavaglio”, che ha contribuito in modo determinante a bloccare una aggressione alle libertà; il ritorno della Costituzione come riferimento comune. Se i partiti non hanno voluto coglierne il senso compreso il Pd che dopo aver tardivamente aderito, sta tradendo il mandato popolare, se il core business del governo in carica come di quello precedente è la privatizzazione rapace, se c’è un rischio calcolabile che il patrimonio accumulato in questi ultimi due anni si disperda: i movimenti sono sempre esposti al rischio del dissolversi, soprattutto quando si tratta di movimenti impostati su un unico e dichiarato obiettivo, che una volta conseguito lascia consumare la combattività, è proprio nei tempi di crisi profonda che è indispensabile valorizzare e mobilitare tutte le energie.

Non è rituale o enfatico che un larga parte del Paese, sempre più larga, ribelle alla personalizzazione estrema dei processi decisionali e alla chiusura oligarchica dei partiti, voglia rifarsi alla difesa di un patrimonio che nell’interesse generale deve essere inalienabile, farne il suo stendardo. E questa realtà molteplice deve trovare una propria forma di riconoscimento e organizzazione per collegarsi, dialogare, agire d’intesa. Non per trovare una leadership estemporanea e non solo per rispondere all’ineludibile domanda di una nuova organizzatore dei poteri, ma per partire dai beni comuni per riattribuire centralità alla questione proprietaria, per sottrarre le scelte sociali e produttive alla “teologia economica”. Perché anche il progetto, quello del futuro, è un bene comune e “popolare”.