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Scacciamo i bramini del mercato

Anna Lombroso per il Simplicissimus

La voluttà sgangherata con la quale la stampa, sempre di regime qualunque sia, indaga, bisbiglia, urla, sbandiera i misfatti dei tesorieri, l’amore per l’istruzione dei leghisti, crimini all’insaputa degli autori e quelli festosamente consapevoli e, con un certo rimpianto per i fasti del giaciglio basso-imperiale, ancora intercettazioni pruriginose, fa sospettare che come al solito si voglia far sapere e se si è più efficaci anche pensare quello che il potere intende mostrare, rivelare, esaltare, in modo da nascondere il “meglio”. E in questo caso alimentare e nutrire l’antipolitica desiderabile, auspicabile e favorevole alla pessima aberrazione della politica che impera dispoticamente oggi e ha ormai preso il sopravvento sulla democrazia, irridente della sovranità dello stato, dell’interesse generale, dell’espressione e dell’autodeterminazione dei cittadini e degli obblighi della rappresentanza.

Mentre invece sono stati serbate in una riservata, opaca e discreta penombra le vere azioni dell’antipolitica, le sue vittorie proterve, omesse o sussurrate non per vergogna, intendiamoci, ma per lasciarle nelle lontananze siderali dei tecnici, nella separatezza dei competenti, nella inclusione dei “chiamati” a escluderci, a rifiutare i nostri reclami, a respingere le nostre aspettative, a recidere i nostri diritti. Parlo dell’alacre, frettolosa, solerte accettazione del diktat che ci vede in prima fila sul fiscal compact, che espropria stato, istituzioni, parlamento e cittadini della possibilità di esprimere, decidere, partecipare, concordare, obiettare sulle politiche e sulle misure “economiche” del Paese. Mentre la rinuncia alle conquiste del lavoro, l’offesa ai pensionati espropriati di quanto avevano capitalizzato in vista di anni più vulnerabili, l’oltraggio degli esodati penalizzati e beffati, la ferita mortale al futuro dei giovani e alle superstiti garanzie dei loro padri, tutto questo era stato imposto inesorabilmente e implacabilmente come doverosa abdicazione dai diritti in nome della necessità, in questo caso la dismissione della partecipazione, l’erosione della democrazia, il dileggio della concertazione è stato ingiunto come giusta, legittima appropriazione da parte di un “ceto” che impiega i suoi tecnicismi dilettantistici, approssimative occasionali al servizio di una ideologia fondata sull’incremento delle disuguaglianze, sull’arbitrarietà che trasforma i diritti in concessioni, sulla cancellazione, con la sovranità statale, del primato dell’interesse generale.

Bramini irremovibili dalle loro concezioni “mistiche”, sacerdoti di un mercato stupido come lo è l’accumulazione ottusa, cieca e rapace, inadeguati come succede a chi è reso ubriaco dal pregiudizio, pensano che lo sviluppo del Paese debba essere “economico”, limitato a un artificioso quanto iniquo equilibrio, stretto nell’esecuzione di aritmetiche e formule finanziarie, chè tanto tutto è merce, tutto si può comprare e vendere anche la libertà e il proprio Paese. Eppure proprio l’accademia degli economisti ha avuto un ruolo primario nel provocare la crisi. E i suoi modelli inadeguati e distorti hanno consolidato l’illusoria convinzione, anche della politica, che i mercati avrebbero risolto tutti i problemi. Ma la catastrofe non li ha dissuasi, né gli uni né gli altri, anzi. Protervamente ispirati a perseverare nella “verità” del libero mercato fingono che il difetto non fosse nel modello ma in qualche particolare della sua applicazione. Gli americani pensando, come dice Stiglitz, di essere troppo grandi per fallire, l’Europa di essere troppo vecchia per sbagliare, si affidano al liberismo che non significa concorrenza e libero mercato, fenomeni che attengono alla “distopia”, ma soccorso ai ricchi contro la “minaccia” costituita dai poveri, sostegno per la riconversione della spesa pubblica e previdenziale in assistenzialismo per già privilegiati.

Qualcuno, pochi, non si era certo aspettato che i ministri tecnici possedessero davvero anche solo una minima parte delle competenze loro attribuite, ma come sottolinea il Simplicissimus a proposito dell’inclinazione all’annuncio menzognero, ma la loro inconsistenza ha qualcosa di surreale e al tempo stesso orrendamente banale, tanto che senza la mediazione di una stampa prona, si rileverebbe che anche il Trota o la Tommasi farebbero una figura brillante nel loro consesso.

Anche i ministri del passato esercitavano il loro squallore pubblico ma esistevano ancora limiti e vincoli. Ora affari ed economia danno luogo nel loro integrarsi a un paradosso: più un affare è antieconomico, più risulta lucroso per gli affaristi, come nel caso delle gare pubbliche, degli appalti per le grandi opere ma anche nel caso della politica depressiva dei tagli di bilancio. È talmente evidente l’antieconomicità dei provvedimenti di austerità finanziaria, che dovrebbe essere semplice, fisiologico, cambiare strada, far ridiventare lo Stato banchiere ed imprenditore, riconvertire il governo al ruolo di indirizzo anziché di esecutore di ordini venuti da fuori.
Per questo proprio come si diceva qualche mese fa di un altro, l’importante è cacciar via quelli che proseguono il suo sporco gioco. Uno dei modi è demistificare i risultati che hanno raggiunti, quei successi dell’iniquità e della dimissione della democrazia.
Sollecitata da Gianni Ferrara circola senza materializzarsi ancora concretamente la proposta di raccogliere 50 mila firme, secondo il dettato dell’art. 71 Cost., per una proposta di legge di iniziativa popolare per un comma aggiuntivo all’attuale testo dell’art. 81 che vincoli almeno il 50 per cento del bilancio dello Stato all’effettiva fruizione dei diritti sociali e del lavoro prescritti in Costituzione. Ma pare che l’Associazione per la democrazia costituzionale abbia avviato un cantiere finalizzato a unire intorno a questa ipotesi di lavoro “tutte le forze intenzionate a difendere e sviluppare il costituzionalismo democratico e sociale”. L’articolo 75 infatti vieterebbe il ricorso a un referendum abrogativo, ma i Trattati Ue hanno una tale incidenza sugli assetti costituzionali che il Parlamento italiano varò nel 1989 una legge costituzionale per consentire un referendum popolare di indirizzo su una questione fondamentale: l’attribuzione di un potere costituente al Parlamento europeo, che allora il Pci, sia pure senza entusiasmo, votò. Altri tempi, certo. Ma tempi ancora più ostili e amari ci aspettano se non rovesciamo l’ edificio del golpe liberista.

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