Sono sinceramente dispiaciuto per Bossi e altrettanto dispiaciuto per un Paese che nel bene o nel male su quest’uomo ha edificato una saga. Sono dolente per l’Umberto che alla fine del percorso ha inciampato in qualcosa che non poteva essere allontanato da un dito “alto levato” come il male di vivere della politica, non poteva essere separato dall’ingombro della realtà nemmeno a suon di cazzi duri. E sono dolente per un’Italia ridotta a esaltare o  maledire un mitomane.

Perché questa è stata la vita di Bossi: una narrazione fantastica, una conchiglia vuota dentro la quale sono risuonate tutte  le parole d’ordine e le malmostosità di un popolo in cerca di soluzioni semplici e rozze. Il famoso fiuto dell’Umberto non era nient’altro che questo accordo fra la sua essenza e quella dei suoi elettori, fra le sue profferte e le tentazioni più ovvie, tra il suo fantasticare greve come l’odore di vino versato sul bancone e il vociare della briscola.

Cominciò presto Bossi a secernere la sua mitomania, fin da quando voleva fare il cantautore, fin da quando organizzò la sua falsa festa di laurea o disse alla prima moglie che faceva il medico a Pavia, uscendo di casa la mattina con invidiabile senso del dovere,  per poi trascinarsi con altrettanto ammirevole caparbietà di bettola in bettola. La dolce e incazzata metà alla fine scoprì tutto, ma il senatur non ha mai voluto rinunciare alla sua vita sognata e, in un’intervista, fuse quella irrresponsabile fantasia con la sua sapienza di studente della scuola Radio Elettra:   “Nel 77, se ben ricordo  cominciai a collaborare con la clinica di Patologia chirurgica dell’università di Pavia, come esperto d’elettronica applicata in sala operatoria”. Una vera fissazione, tanto che con Giorgio Bocca più che parlare di politica si dilungò sulle sue capacità tecnologiche: “Sa, potrei costruirle un laser”, affermò inorgoglito.

E i suoi compagni di lega ricordano ancora come all’albeggiare del successo, li intrattenesse con lunghe concioni sul federalismo, ma anche sulla sua abilità nello sfuggire agli agguati del Sismi, del Mossad, della Cia, della Dia, del Kgb, lasciando fuori solo gli impronunciabili Dgse e  Bundesnachrichtendienst. Assolute fantasie come quelle del resto che lo accreditavano come un figlio del popolo, grondante sudore e lacrime, pieno di aneddoti edificanti su questa sua auto narrazione. Che come si vede è desolatamente semplice e contraddittoria: da una parte primula rossa, dall’altra creatura umile e terragna. Un contrasto espresso benissimo in una dichiarazione a Guido Passalacqua:  «Ho fatto l’operaio, il perito tecnico, ho lavorato nell’informatica, ho studiato medicina a Pavia, ho insegnato matematica e fisica». Tutto assolutamente falso in questo crescendo di competenze che tentano di tenere assieme le molte favole raccontate. Con solo qualche scivolone, come la falsa dichiarazione di aver conseguito la maturità scientifica che compare nel suo ruolino di parlamentare.

Non sono bugie come quelle di Berlusconi, lucide, strumentali e ciniche, sono invece  la costruzione di una vita, la descrizione di ciò che Bossi avrebbe voluto essere o ha pensato di essere e solo successivamente questo corpus di invenzioni è stato raffinato e usato per costruire la leggenda del capo. In realtà nascevano al momento, con sconsiderata leggerezza, seguendo il bisogno di un ego vorace, ma fragile. Dopo verranno le invenzioni e le fiabe politiche, come la secessione e la Padania nelle quali l’Umberto ha tolto  la catena alla sua capacità affabulatoria, restando egli stesso coinvolto dentro questo assurdo e sconsiderato racconto tanto da straparlare di truppe e di fucili oltre a riempire ampolle. In realtà secondo il Profesùr, ossia Gianfranco Miglio, La lega già all’indomani delle elezioni del ’94 aveva abbandonato la linea federalista – secessionista, per dedicarsi alla contrattazione con lo stato centrale.

Cosa assolutamente plausibile visto il ruolo di governo o semi governo che la Lega ha avuto da allora in poi, ma comunque si trattava di miti e immagini che servivano alla facciata di lotta, per poter stare nella stanza dei bottoni con l’aria di chi vorrebbe manometterla. Per poter godere dei privilegi del potere senza esserne logorati. Ma alla fine la realtà con la sua tardiva prepotenza, è venuta alla luce e la favola bella che ieri ti illuse o Trota, alla fine si è infranta sulla più orrenda storiaccia di ruberie, per giunte attuate dalla famiglia e dal circolo di badanti.

Eppure tutto questo insensato grumo di mitomania, non è stata una divagazione politica per una parte minoritaria dell’elettorato,  ha effettivamente avuto conseguenze disastrose per il Paese, inchiodandolo dentro un sistema padronale che ha fatto da incubatrice al declino, tra orditi di fantasie e trame di menzogne. E che ora che c’è il massacro finale, frutto non di un cambiamento di rotta, ma anzi di un “alla via così” con i motori a tutta forza, non ha molto senso limitarsi a decostruire la mitologia leghista, l’ambiguo racconto della sua diversità e a “normalizzare”  il partito e il suo capo dentro l’avvilente panorama generale. Bisogna invece trarne spunto per evitare altre false narrazioni, per trovare il bandolo della matassa, anche se le parole sono cambiate e la Padania rischia di essere soffocata dalla Crescita.