Licia Satirico per il Simplicissimus

Apprendere dai quotidiani di essere una privilegiata dà una perversa soddisfazione. Ieri “Repubblica” ha annunciato che i professori universitari italiani sono tra i meglio pagati al mondo dopo il Canada, pur non usufruendo dei bonus “per il primo matrimonio” (il secondo è a carico del recidivo?) e dei tacchini-cadeaux inventati dalle università messicane per contrastare la fuga dei cervelli. Questo è quanto risulterebbe – secondo un’interpretazione piuttosto rozza e disinformata di natura svagatamente  giornalistica – dalla ricerca di P.J. Altbach, L. Reiseberg, M. Yudkevich, G. Androuschak e I.F. Pacheco, “Paying the Professoriate. A Global Comparison of Compensation and Contracts”, citata da Repubblica in modo alquanto originale. E dire che di originale non c’è nulla: l’abbattimento del totem degli stipendi d’oro dei professori italiani è già stato sollecitato qualche anno fa da Roberto Perotti, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi in libri bocconiani che hanno legittimato folli campagne stampa contro i “baroni” nullafacenti e strapagati.

Insomma, «nelle università resistono le buste paga pesanti: la riforma Gelmini non le ha intaccate». La purulenta sacca di privilegio sembrerebbe odiosa: i professori universitari italiani non possono essere assunti part-time e la loro retribuzione non sarebbe commisurata all’entità dell’impegno scientifico e didattico. Nei Paesi anglosassoni «i docenti sono pagati per i periodi di insegnamento effettivo: 4 mesi, 9 mesi, poi devono andare a cercarsi consulenze altrove». Da noi, invece, lo stipendio – incredibile! – si prende «tutti i mesi – anche in estate, con le università chiuse – e a Natale invece del tacchino arriva la tredicesima». Inaudito.

“All’erta, all’erta, siamo nella merta”: così recitava un’epistola in versi di Mino Maccari a Ennio Flaiano. Visti gli orientamenti culturali filo-governativi manifestati di recente da Repubblica, non si sa se prendere gli inediti dati sullo stipendio baronale come una provocazione o come una sinistra premonizione di scenari incombenti, con tacchino e senza tredicesima. Il pezzo, prontamente inserito nel sito del governo, essuda un radicato pregiudizio proto-fascista verso gli intellettuali sfaticati, pagati anche quando non insegnano. Forse il cronista ha ben presente lo smagliante economista che presta le sue consulenze in Goldman Sachs, o la brillante avvocatessa con le cui tasse si potrebbe costruire un ospedale. Fatto sta che il tentativo semplicistico di comparare realtà accademiche assai differenti, autoctone, anglosassoni e persino messicane liquida malamente i docenti italiani.

La realtà degli atenei pubblici italiani è molto diversa da quella anglosassone, Repubblica fa riferimento a uno stipendio “medio” netto di 4.345 e lordo di 7.423 euro, senza precisare i criteri in base ai quali la media sia effettuata. Se la stima fosse esatta, non saremmo però al secondo posto: saremmo infatti surclassati – per il lordo – da Stati Uniti, Regno Unito, Sud Africa, Arabia Saudita, Malesia, Canada e Australia. Solo che la cifra non è nemmeno esatta, ponendosi molto al di sopra degli stipendi reali.

Prendendo ad esempio le tabelle ministeriali sulle retribuzioni dei professori di prima fascia consultabili sul sito Miur, è facile verificare che gli stipendi lordi e netti vagamente accennati da Repubblica non tengono in considerazione il peso enorme delle addizionali Irpef e, soprattutto, il calcolo degli anni di anzianità. In base alla legge Gelmini, il passaggio da una fascia all’altra di docenza implica la perdita parziale della carriera pregressa ai fini pensionistici. Un professore associato con vent’anni di servizio ne “conserverà” solo otto diventando ordinario. Lo stesso accade per il passaggio da ricercatore ad associato. La legge 240 del 2010 ha poi eliminato la ricostruzione delle carriere, azzerando la rivalutazione del trattamento economico iniziale. Stando così le cose, per arrivare ai livelli massimi di stipendio ipotizzati da Repubblica occorre diventare ordinari all’età di Michel Martone e non a cinquant’anni, come la stragrande maggioranza dei cattedratici (sfigati) del nostro Paese. Irreale è anche la prospettiva di integrare lo stipendio con consulenze, che toccano solo una minoranza di docenti con competenze tecniche appetibili sul mercato.

Per tutti gli altri, forzati del tempo pieno, esiste solo – estate e inverno, perché si lavora tutto l’anno – lo stipendio tabellare.
Al di là dei toni pacati e delle distanze diplomatiche dalle corse dei neutrini, Francesco Profumo ha finora manifestato una sostanziale continuità d’intenti rispetto alla signora del tunnel. L’Ocse sollecita inutilmente l’investimento del nostro Paese nella ricerca e nell’istruzione, ma la cultura non è la concussione e non si finisce sotto processo per aver ucciso l’università. Stiamo parlando di un mestiere malvisto e senza futuro, che d’ora in avanti sarà appannaggio di pochi eletti: con la legge Gelmini dottorandi, assegnisti e ricercatori a tempo determinato sono esclusi da ogni tipo di tutela. Li si potrebbe definire ontologicamente precari: non essendo mai stati assunti, non possono nemmeno essere licenziati. Si estinguono per stanchezza, esodati da una carriera che l’ottantacinque per cento di loro non potrà portare avanti. Lo stipendio d’oro diventa amaro miraggio.

Nel frattempo il ministero dell’istruzione sponsorizza un sondaggio-farsa sull’abolizione del valore legale del titolo di studio: un passaggio obbligato per la bipartizione definitiva tra atenei di serie A e di serie B, tra élite e inferno, tra onnipotenti e mentecatti, tra accademici di prestigio e prestigiatori accademici. Senza prospettive, senza dottorandi, senza fondi, in un clima diffuso di caccia alla casta non vorremmo dover scoprire che l’unica cosa che ci riserva il futuro è il maledetto tacchino