Anna Lombroso per il Simplicissimus

C’è qualcosa di involuto e distorto in un capo di governo che fa il piazzista degli interessi del suo paese portando nel carniere, è il caso di dirlo, misure per il libero licenziamento e l’esautoramento delle rappresentanze sindacali e dunque la cancellazione di diritti.
È sconcertante che un premier così attento all’opinione “internazionale” giri il mondo con bozze di contratti asociali che sanciscono una rinuncia all’autodeterminazione e l’offerta sul mercato una forza lavoro disponibile a essere schiava.
Ricordo che in un treno, come d’abitudine molto molto in ritardo, un commesso viaggiatore di dolci pensò di ristorare i viaggiatori schiudendo come un forziere di delizie la sua valigetta colma di grossi cioccolatini ripieni di elisir, di bonbons, di bastoncini di zucchero e liquirizie. Monti invece ristora i competitori estraendo una manciata di cartacce ciniche e spietate, un modellino della panda che nessuno si sogna di comprare, nemmeno lui, e poi opere d’arte abbandonate, paesaggio trascurato, un tessuto produttivo percorso da fermenti molto dinamici di corruzione e malaffare, una pubblica amministrazione affamata e avida che si presta dissipatamente alla corruzione, una burocrazia immota, un sistema giudiziario pachidermico, una politica arresa, appartata e egoista. E un paese che è stato costretto a scegliere le blandizie ai poteri finanziari e alle rendite da biscazzieri, piuttosto che cercarsi un spazio di crescita nell’economia reale.

Sfogliate frettolosamente le dispense di storia economica, il tecnico prestato al governo e inflitto agli italiani, liquidata l’ipotesi che la crisi si risolva con politiche di sviluppo delle produzioni, del lavoro dell’istruzione e sociali, che le risorse si trovano non mungendo vacche già magre, ma attingendole ai patrimoni occulti, ai bacini dell’evasione e della corruzione, si fa ispirare probabilmente dai manuali delle società di investimento: come annettere nuove leve di risparmiatori ormai dissanguati alle illusioni speculative, come compiere quella miracolistica dislocazione dei flussi della ricchezza da reale a finanziaria, come appagare l’avidità menzognera delle agenzie di rating, come nutrire la proliferazione delle società off shore create per evadere le imposte.

Prima di partire per la Cina sarebbe già stata una buona premessa che si fosse letto il Milione, che magari sarà solo un’opera di fantasia, ma che l’avrebbe ispirato meglio a intraprendere un viaggio di conquista e non una missione di resa e di svendita “alla greca” di una nazione e di un popolo.
Monti porta come referenze l’adeguamento alle convinzioni e condizioni insindacabili del marchionnismo: un esercito di disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali moltiplicheranno nel nostro paese, una legione industriale di riserva, che imprenditori più o meno spregiudicati potranno mettere e togliere con criteri assolutistici discrezionali e arbitrari, con un’espulsione dalle aziende di di lavoratori con posto fisso, che non apre certo le porte a nuove assunzioni, ma che semplicemente chiude per sempre le porte a un altro impiego. Perché se la domanda di lavoro non c’è non saranno certo le strategie di austerità di Monti e della Bce a crearla, come dimostrano Grecia e Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro.
E se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.

È davvero un povero paese in liquidazione quello che Monti mette in svendita all’estero. Povero anche perché non ha forze sociali intenzionate a riprendere con la sovranità dello Stato, un possibile protagonismo economico. Eppure se il sistema capitalistico nella sua ipertrofica dimensione finanziaria è ancora saldamente in piedi, ciò è dovuto al fatto che negli Usa, in una parte dell’ Europa – e anche in Cina – lo Stato è intervenuto a piene mani nell’economia finanziaria e in quella produttiva. Mentre l’idillio con il privato intrattenuto da tutti di governi, lo ha condannato a una passiva mansione di elemosiniere, da strizzare e depauperare con dissipato e protervo accanimento.
Mentre Marco Polo andava in Cina, la sua città-Stato deliberava grandi interventi di consolidamento, di abbellimento, promuoveva le arti e i mestieri, mandava in giro i suoi giovani a apprendere scienze e conoscenze. Investiva, in ottemperanza al comando del suo governo: è necessario curare e far crescere Venezia “non sparagnando spesa alcuna, come è necessario allo splendor e alla potenza sua”.