Anna Lombroso per il Simplicissimus

Pare che sorprendentemente l’ultima sacca di resistenza alle liberalizzazioni del governo Monti sia quella, indomita, delle banche. Quanta ingratitudine, proprio il giorno nel quale gli istituti italiani avevano visto trasferire magicamente nel loro porcellino un bel gruzzoletto. Invece l’irriconoscente vertice dell’Abi ha rassegnato le dimissioni per protestare contro la norma che taglia le commissioni bancarie. “Questa, ha tuonato il presidente Mussari, è la goccia che fa traboccare il vaso”. Il sospetto è che nella compagine di quello che alcuni di noi chiamano il governo dei ragionieri, al servizio della finanza, si nascondano forze eversive che assecondano quello che Mussari ha definito il pericoloso clima di avversione generale verso le banche. Gli istituti di credito contestano che attraverso l’abolizione delle commissioni sui fidi vengano imposti “prezzi amministrati o un divieto di avere dei ricavi”.

Ammettono con una spericolata acrobazia che l’intento di promuovere la trasparenza, concetto per loro piuttosto ostico, su cui poggia la norma, potrebbe significare più concorrenza, ma che un prezzo amministrato non migliora la competizione. Interpretando quello che ha tutta l’aria di una specie di “condono” che legittima l’”opacità purché si paghi”, sistema molto in uso di questi tempi, come una sanzione, alla quale rispondere con ritorsioni esplicite: “dovremo rivedere tutte le politiche creditizie anche nell’ipotesi che la norma riduca gli impieghi delle banche straniere in Italia”.

Ma niente paura, i banchieri hanno fatto bu! minacciando anche un ricorso dai veri padroni europei e subito il relatore del Pd, Filippo Bubbico, li ha accontentati: il governo modificherà la stretta sulle commissioni bancarie per la concessione di crediti e fidi – inserita nel decreto liberalizzazioni – in un altro provvedimento, probabilmente nel decreto legge sulle semplificazioni all’esame della Camera.
Il governo, li ha tranquillizzati, vuole riformulare la norma limitandone l’applicazione alle sole banche “opache” quelle che non si adegueranno ai futuri criteri sulla trasparenza del Cicr, il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio. Futuri, naturalmente, perché si sa che questo è il governo dei due tempi, subito il bastone e la carota, o le regole uguali per tutti, dopo, molto dopo, forse mai.Pace è fatta, meglio così, in questi tempi di conflitto sociale mancava solo che, per dei malintesi, il governo litigasse coi soci di maggioranza, con gli influenti referenti e peggio ancora, con i padroni oltre confine e proprio per un atto di “servizio”, di quelle che i tecnici contabili dovrebbero saper fare a occhi chiusi.

Quando Monti dice che forse, malgrado il consenso universale, lo manderanno a casa dopo la “transizione tecnica” perché “fa bene”, si riferisce a questo. Cede ai taxi, che altrimenti si blocca Roma, fa qualche regalo ai notai, che così tutti gli sfigati possono mettersi in società a 1 euro simbolico, e accondiscende alla banche altrimenti, se si arrabbiano, se la prendono con noi cittadini, non concedono prestiti per la crescita alle imprese e non ci danno quel mutuo.
E dire che il mestiere di banchiere, diceva il fondatore della banca Rotschild, consiste nello spostare la moneta da dove sta a dove è necessaria. Ma ora nell’età dei dispotismo finanziario, la moneta è immateriale, volatile, circola virtualmente in un gioco d’azzardo dal quale stati e cittadini sono esclusi, per ritornare moltiplicata da dove era partita a beneficio dei vari Bugsy padroni dei casinò o dei Gordon Gekko, evaporando dalle mani degli stolti che si sono separati del loro denaro per investire in illusioni.
E da tiranni si comportano, così che il capitalismo assomiglia sempre di più alla sua caricatura, come quella, verosimile, forse vera, raccontata a suo tempo dal New York Times: una cupola senza patria e confini, che si riunisce ogni settimana per dettare le regole del mercato finanziario, una plutocrazia mondiale che dalla capacità di accumulare ricchezza oltre la moneta e nelle forme più svariate, trae rendite e potere.
Il nostro Mefistofele contemporaneo, qui ben interpretato del pensoso Presidente del Consiglio, a differenza di quello letterario che perpetuamente pensava il male e faceva il bene, pensa di fare il bene e realizza il male. Come succede quando si è perversamente convinti che dall’avidità possa nascere la prosperità. E che dall’austerità possa svilupparsi la crescita equa.
Ma l’avidità, che rappresenta la cifra del capitalismo vecchio e nuovo, è una passione incontrollabile, che anziché tradursi in un processo virtuoso di benessere si avvita solo nella spirale viziosa e perversa del sistematico arricchimento, fine a se stesso. E di pochi.