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Primarie, con quella faccia un po’ così…

L’altra sera ho assistito a uno spettacolo imperdibile, il miglior teatro che si mi sia capitato di vedere dopo una Filumena Marturano con Eduardo all’Eliseo, durante una vacanza romana di decenni fa. Teatro lo era perché la realtà diveniva rappresentazione televisiva e la rappresentazione coagulava tutta la realtà non detta: l’arroganza e la vacuità del potere. Marta Vincenzi, appena sconfitta dal marchese  Marco Doria alle primarie del Pd genovese, è comparsa scarmigliata e furente, gli occhi dilatati e incattiviti,l a rabbia contro gli elettori sulle labbra, una Medea a cui è stato sottratto a tradimento il giaciglio di Giasone. Altro che Ipazia alla quale la  Vincenzi si è paragonata, riuscendo a precipitare non solo nelle urne, ma nel ridicolo.

Però nessun argomento vero, solo il disprezzo per chi non ha compreso la presunta modernità del suo progetto di città fatto di paroline magiche come smart city e di poca consistenza, salvo alcune schifezze da elezioni come la promessa di sollevare totalmente dall’IMU le proprietà della chiesa. Parliamo, tanto per capirci della migliore politica italiana, incapace di uscire dalle logiche di apparato e altrettanto inetta ad ammettere le sue colpe. Cosa facesse pensare a Marta Vincenzi di avere la vittoria in mano alle primarie dopo cinque anni di governo della città travagliati, non privi di ombre e culminati nella tragedia dell’alluvione, sarebbe un mistero se non trovasse la sua radice nel distacco profondo dall’elettorato. Pensare di superare questo muro di incomunicabilità che si è scavato, attraverso il maldestro e strumentale utilizzo della rete, twittando da una parte e cenando con i vlasti della città dall’altro, è davvero una penosa illusione. Quella del resto che ha coinvolto la sua presunta antagonista, Roberta Pinotti la quale come programma presentava “le idee dei genovesi”, che tuttavia fino all’ultimo non ha ritenuto di svelare, come si evince da una straordinaria dichiarazione che andrebbe riportata negli annali del coglionario italiano. Ci vuol poco a capire che si è trattato di uno scontro fra due posizioni di potere e nient’altro, di un balletto senza senso su alleanze, gruppi di pressione e personali ambizioni. Così ha vinto chi era fuori da questi giochi.

L’ennesima lezione però non è servita: invece di dedurne che qualcosa che non va nel partito, Bersani arguisce che c’è qualcosa che non va nelle primarie, così come altri che sono al governo del Paese, ad ogni loro massacro deducono che c’è qualcosa che non funziona nei cittadini. La stanchezza e la rabbia che suscita questa pedagogia del nulla, la cui unica materia è la conservazione del privilegio, temo esploderà prima o poi nelle mani si chi la maneggia con noncuranza, come è già esplosa nella Medea sindaco. E di certo non bastano le dimissioni di qualche personaggio del partito locale, probabilmente imposte dall’alto, per trasformare in un errore di valutazione e di gestione quello che è un errore politico, anzi l’errore politico più grave: quello di non avere politica.

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