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I treni della rassegnazione

Anna Lombroso per il Simplicissimus

“Non ci sono particolari criticità sulla rete ferroviaria italiana”, ci tranquillizza Trenitalia.
Chissà come prendono il rassicurante messaggio i viaggiatori del treno regionale 3378 Roma-Pescara che sono stati per oltre 24 ore nella stazione di Tivoli, dormendo sui sedili prima di essere ospitati dal Comune; o quelli di un convoglio ripartito dopo 25 ore di sosta forzata nella stazione di Carsoli. O quelli della Siena-Chiusi. Ma anche quelli delle muscolari freccerosse costretti a spericolati attraversamenti di steppe gelate per essere caricati su modesti intercity. Il sindaco di Roma si azzuffa con la protezione civile invitando i cittadini ai badili faidate, sparge un sale a scopo dimostrativo, e non solo sulle ferite, con stolido ritardo, disdegna i piani di emergenza altrui e dimostra una divina ignoranza che merita il dono del Piccolo Chimico e del Piccolo Fisico, non essendoci un gioco del Piccolo Sindaco.

Da siderali distanze il presidente del consiglio distrattamente riflessivo parla di un remoto “previeni-italia”, molto più motivato a finanziare l’alta velocità che a assicurare trasporti efficienti e sostenibili per pendolari, perfino monotonamente in orario.
Pare che questo secolo che si presenta tremendamente lungo e arduo, ci abbia già regalato le dimissioni di Berlusconi e così ci dobbiamo accontentare. Pensano che il troppo stroppia anche amici che quando ieri ho prospettato l’opportunità di “sollecitare” in vari e più o meno pittoreschi modi le mai troppo auspicate dimissioni di Moretti o Alemanno, mi hanno impartito un monito di civile pragmatismo: non serve rimuovere i manigoldi, gli inadeguati, abbiamo bisogno di una intera classe dirigente sostitutiva di quella attuale dannosa e inconcludente.

Nemmeno loro sono appagati dal ricambio di smargiassi con lunari schizzinosi, di dissipati sfolgoranti con grigi esosi. Sono anche loro infastiditi dal nuovo ceto di governo che applica un po’ troppo il pensiero stoico, pensando che noi poveri abbiamo ricchezze interiori tali da poter sopportare la miseria, dotati come siamo da una dignità che rifulge anche quando la natura o l’austerità fa il suo peggio. E che forse nella terza fase provvederanno a toglierci.
Si sono irritati, ma predicano la temperanza di chi si affaccenda per cavarsela onestamente e dignitosamente, di quelli che non si rimboccano le maniche solo sui poster e esercitano responsabilmente la loro cittadinanza.

Li ammiro, ma non mi accontento. Scienza, sapere, informazione hanno esteso i principi di responsabilità ben oltre il limitarsi a considerare l’uomo come fine ultimo, per riguardare anche gli effetti che hanno le conoscenze, le azioni perfino le applicazioni della tecnica, nel tempo e nello spazio vicino a noi e in quello a venire o lontano.
Si è allargato il nostro mondo, si sono estesi doveri e diritti, morali e materiali, si è dilatata l’aspettativa di benessere, organizzazione, disponibilità di servizi. Cui non c’è adeguata risposta. Per incapacità, inefficienza, arroganza, impreparazione. E perché interessi privati e collusi hanno la meglio su quello generale, per conservare il consenso elettorale di ceti influenti, per restare nel cono di luce di potentati, per profitto e smania di accumulazione, per avidità. Pare proprio che non ci sia una strada virtuosa che conduce al potere.

Per questo in attesa di un benefico rivolgimento, di un provvidenziale metabolismo, di un catartico ricambio, le dimissioni di Moretti, di Alemanno, di ministri in odor di conflitto di interessi, di parlamentari ladri conclamati, di rappresentanti che rappresentano ben altre famiglie dalle loro e dalle nostre sarebbero proprio obbligatorie. Perché la meritocrazia che piace tanto dovrebbe essere volta anche al punire i peggiori oltre che premiare i migliori.
Ma anche perché sarebbe una lezione salutare anche per noi, per quelli che si arrangiano, per quelli che a testa bassa proseguono un cammino come cavallo col paraocchi per non vedere le brutture intorno. Che esprimono la loro cittadinanza e la loro civilizzazione comportandosi bene e facendo del bene, inclinazione e esercizio quanto mai meritorio. Ma che non basta più.

Il rischio è quello di precipitare nella forma più agnostica e sofisticata di disincanto della democrazia e di schifiltosa astensione dalla politica, quando essere momentaneamente esclusi sembra una scelta volontaria e liberatoria, nella consapevolezza “di non essere mai stati così assoggettati come quando si è stati presi più in giro” da trucchi e mezzucci usati dai potenti a fondamento del loro potere. È vero che l’apparenza pubblica della politica è servita a nascondere interessi privati, così, anche grazie all’ideologia imperante, si potrebbe essere tentati di convincersi che la migliore Politica, il perfetto Stato, la più desiderabile organizzazione della vita pubblica siano quelli evaporati, invisibili, presenti ma appartati a sbrigare faccende, in modo da dare l’illusione che tutto si svolge meglio in loro assenza. E che il migliore rappresentante, anche non eletto, sia l’uomo invisibile che premette benignamente ai suo concittadini di occuparsi di sé, dei propri cari, della vita personale, delle proprio piccole ambizioni che con la politica e lo Stato hanno a che fare poco e occasionalmente.

Non è così, non è inevitabile né desiderabile la sopportazione, né civile. Così come non lo è l’attesa messianica di tempi e uomini migliori. Non so dei tempi, ma alcuni uomini migliori è possibile siano tra noi.

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