Anna Lombroso per il Simplicissimus

Allora è deciso: entrerà in vigore lunedì 30 la tassa da 80 a 200 euro per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, voluta con decreto dagli ex ministri Tremonti e Maroni. Lunedì l’immigrato che chiederà il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno dovrà versare 80 euro per il documento di durata compresa tra tre mesi ed un anno e di 200 euro per quello di soggiornante di lungo periodo. A questa cifra vanno poi aggiunte 27,50 euro per le spese del documento elettronico. A quanto si apprende, in tempi brevi verrà studiato un provvedimento legislativo che riordinerà tutta la materia dei permessi di soggiorno. Se queste sono le premesse, nella continuità, c’è da temere che insieme al balzello razzista si confermino altre infamie ereditate e raccolte. E getta una luce sinistra sul successo della la proposta di introdurre anche nel Paese dello “ius sanguinis” il principio dello “ius soli”, concedendo la cittadinanza ai bambini che sono nati in Italia da genitori stranieri.

Si parla oggi di un milione di bambini, i figli degli stranieri residenti in Italia. Che pagano le tasse e esercitano i nostri doveri per godere, sembra, solo di una parte dei nostri diritti. E anzi sono chiamati a pagare una tassa aggiuntiva, un balzello discriminatorio e razzista. Un disincentivo alla “regolarità”, che condanna loro a essere diversi, che condanna noi a essere incivili.

D’altra parte pare essere questo il “senso comune”. Ieri sera ho effettuato un viaggio di istruzione nel web. Imbattendomi in commenti terribilmente sensati, orrendamente pragmatici e cinicamente inequivocabili: c’è la crisi, qui li trattiamo bene, è giusto e doveroso che paghino, siamo più poveri anche noi e poi questo avviene dappertutto.
Questo è un paese provinciale si vede, che ha bisogno di modelli importabili, dai paesi ricchi e da quelli che non lo sono: carceri private, salari bassi, liberismo sbrigliato, bavagli alla stampa imposti o anticipati. E diffidente invidioso.
La paura che altre bocche aspirino al pane cui hanno diritto quanto quelle native, suscita una risentita difesa del poco, che in tempi di crisi assume le fattezze del privilegio. Molto e orribile è stato compiuto se circola la convinzione che deve essere tutelata per legge una superiorità magari anche parassitaria, nell’accesso ai bisogni primari, ai servizi sociali, al soddisfacimento delle necessità. Così chi non è italiano deve pagare un turpe sovrapprezzo.
Ricorda bene il Simplicissimus, chi ha accolto senza ribellione le leggi razziali del’38 in difesa della razza, trova legittime e accettabili le moderne misure in difesa della superiorità di chi solo grazie alla lotteria naturale è nato da una parte che fino a ieri sembrava quella giusta.
Eppure.. .

Eppure dovrebbe essere impossibile per italiani di una certa età guardare le molte tristezze degli immigrati che colorano variamente la globalità delle nostre città, con occhi diversi da quelli con cui guardavano i contadini che salivano al Nord, nel promettente triangolo industriale.
Eppure per i giovani gli stranieri dovrebbero far parte del paesaggio quotidiano.
Eppure loro, i giovani, noi tutti sappiamo che sono tornati i tempi amari nei quali siamo noi a diventare forestieri in ogni dove, per cercare lavoro.
Eppure siamo tutti stranieri per gli altri, pur restando attaccati a un’eco di identità, aggrappati a un barlume di memoria comune, ancorati a una sostanza indistinguibile di privilegio o di ciò che prendiamo per tale. Sono pochi quelli autenticamente disponibili e aperti al diverso per istinto o persuasione culturale, quelli sfuggiti a messaggi di difesa, isolamento, a una malintesa salvaguardia di valori e principi.

Perché l’altro è una fatica in più, la pena di mettersi in discussione, l’angustia di caricarsi di nuovi doveri non necessariamente materiali. E richiede una inclinazione alla compassione, al dividere cioè le passioni altrui come fossero nostre, o alla polis: sentimenti appannati in un contesto dove i capisaldi dell’etica collettiva sono eclissati dalla luce abbagliante della crudele competizione, dove l’opacità del futuro ha invaso l’immaginazione, dove poveri sogni is sono ridotti a incubi peraltro sofferti ognuno per sé, dove la fiducia in qualcuno che ci rappresenti è crollata o si è abbandonata alla guida del più, il più ricco cioè o chi è al suo servizio.
Eppure…
Eppure non è più tempo di supino conformismo, di rinuncia a capire cosicché il non vedere ci protegga in una bolla di indifferenza, perché l’accondiscendenza all’iniquità e all’isolamento non induce tranquillità anzi è ragione e motivo di inquietudine.

Eppure non se ne può fare a meno, siamo per fortuna costretti a uscire dall’inclusione e dalla separatezza, da questo rifugio che minaccia di diventare una reclusione che ci esclude dal mondo, difficile, complesso, ma vivo e incandescente e ribollente di umori, prodigi, bellezza. Senza le doti della curiosità, senza aspirare a soddisfare una nuova esigente morale più aperta e comprensiva tutto il resto, tutti gli altri diventeranno sempre più nemici: homo homini lupus.
Ci è data un’occasione di amicizia che non si ripeterà: scoprire l’altro, capire cosa ce lo rende comune senza aver paura e odiare quello che ce lo rende diverso. E’ anche questo il pacifismo, deporre le armi con chi è orfano di una casa, noi che non abbiamo più certezze e dobbiamo accettare di essere stranieri tra stranieri, cioè umani tra umani, in questa aiuola che ci fa tanto feroci e che può essere coltivata e gentile. Se lo vogliamo.