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Sedazioni & sedizioni

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Sedare la protesta, dice la ministra. Cauti con gli autotrasportatori come non sembra essere con altre categorie, il governo minaccia di mandare i prefetti con un carico di benzodiazepine a persuadere dolcemente alla calma i camionisti, della cui sommossa il presidente del consiglio ha vagamente sentito parlare a Bruxelles.
Esacerbati dalla mancanza di latte e di radicchio, gli italiani in verità non dovrebbero prendersela con i tir irriducibili, ma con la politica dei governi, tutti, e con l’ineffabile Moretti, le cui frecce multicolori sono solo al servizio di manager e riccastri, trascurando la conversione del trasporto da gomma a ferro.

A parlare tanto di lobby più o meno favorite si perdono i contorni e la qualità del privilegio esclusivo. I tir occupano un posizione di vantaggio, intanto perché la loro protesta ha ricadute su tutta la collettività. In gran parte sono “padroncini” quando non addirittura robuste imprese monopolistiche che occupano vari territori manu militari. Ma anche questo settore è in sofferenza da tempo, vessato dai rincari di gasolio e pedaggi, oltre che dalla concorrenza muscolare di soggetti stranieri (soprattutto dei Paesi dell’est), competitivi soprattutto per quanto riguarda il costo del lavoro. Le imprese costrette a chiudere negli ultimi tempi sono state centinaia. La quasi unanimità delle sigle però ha revocato lo sciopero, accontentandosi del il rimborso trimestrale delle accise e delle promesse per quanto riguarda il costo del gasolio e delle assicurazioni, e di alcuni interventi di semplificazione normativa e di sanzioni per gli irregolari.
Restano gli irriducibili, Cna- Fita e cani sciolti più o meno identificabili. E resta il malcontento, perché, c’è poco da dire, è inevitabile che un governo amico degli oligopoli non soddisfi le lobby minori: scontentare il dettaglio per favorire supermercati e ipermercati, penalizzare i tassisti indipendenti, peraltro poco adusi all’interesse generale, per assecondare le prepotenti concentrazioni delle compagnie. Sono cose dette e ridette a proposito della vicenda delle liberalizzazioni che come tutti gli interventi di questo governo ha il carattere di una evidente arbitrarietà.

Ciononostante questa sommossa in odor di Cile più che di nord africa dovrebbe far riflettere tutti e in particolare quel che resta della sinistra che non era sufficiente adoperarsi per raggiungere l’unico salvifico obiettivo di rovesciare il despota, che il mutamento in loden non è miracoloso né può essere miracolistico. E che lo stato di necessità non può essere per tutti persuasivo della ineluttabilità di baciare il rospo. La “lobby” più numerosa e colpita ha abbozzato, e che poteva fare astenersi dall’invecchiare? Per non parlare della difficoltà di scioperare per disoccupati, cassintegrati ormai a termine e precari. Ma altri sono meno favorevoli al sacrificio per l’Italia, tirata in campo soprattutto negli spot per salvare col tricolore anche Unicredit.

Non ho istintiva simpatia né per i forconi né per i Tir. Il piglio da “ boia chi molla”: atti di violenza, intimidazioni, aggressioni, veri e propri sequestri di persona, i blocchi stradali e alcuni espliciti atti di estorsione a commercianti e imprenditori e camionisti “crumiri”, denunciano manovratori poco occulti e facilmente identificabili. Anche per via di certi outing: Lombardo, Miccichè, per non parlare del patrocinio di Forza Nuova. Più che la “forza” delle misure del governo Monti, la pressione terribile della crisi, insieme alla perdità di autorità dei partiti del centro destra, ha rotto antichi e collaudati sistemi clientelari, scrollando l’edificio di rendite di posizione agricole, facilitazioni, fondi, compensazioni, e dissolvendo la potenza discrezionale dei privilegi elargiti dai vassalli locali sotto forma di aiuti feudali. E senza gaurdare a Hoffa e nemmeno a Liggio, il settore dell’autotrasporto ha rappresentato un core business per la criminalità organizzata, fertile e apparentemente inestinguibile. Per dire che è difficile solidarizzare con questo parterre insurrezionalista. Ma guardo con attonita condanna, in contumacia, alla sinistra che non sa cosa dire, se comprendere e perdonare, se vibrantemente censurare, se ammiccare astutamente, se biasimare e riprovare. E che soprattutto sceglie la strada del cauto distacco, con il rischio che il manovratore da lasciar fare sia in questo caso non un sobrio bancario liberista, ma uno sciamannato e intemerato fascistone.

Si decisamente è difficile avere giudizio in questi casi e esprimerlo, come è difficile impiegare la ragione e ancora di più averla. Soprattutto se si è contribuito a quel “perdurante scostamente” del Mezzogiorno dal resto del Paese, che è diventato separatezza; se si è abbracciata come inevitabile la via dell’assistenzialismo; se i mutamenti nel Sud sono stati più di consumi che di investimenti, se il dinamismo ha riguardato più le attività criminose che il sistema produttivo; se come in molti sostengono, la modernizzazione quando c’è, è stata largamente “passiva”; se oggi alla cattiva gestione di tutti i governi, si aggiunge la miopia di un governo che conia un ministero per il felice ricongiungimento nazionale, ma mantiene inalterato con la 488 il sistema clientelare di alleanze opache tra imprese e Stato.

Ancora una volta la sinistra sta perdendo l’occasione – che si è presentata con la caduta orchestrata di Berlusconi – di fare politica, di intervenire sui modi nei quali è strutturata questa società, di dire la sua sull’esistenza di individui e di ceti, di pronunciarsi su quali rapporti di forza tra le classi la attraversano, di quali vincoli effettivi impediscono la crescita, di quale ruolo deve avere il lavoro nel paese, di quale futuro non precario per le giovani generazioni ci possa essere, per tutti e anche per Faruk.

Lo spazio per farlo si era aperto. È stato colpevole affidarlo per delega a un governo destinato, suo malgrado, a riaprire la questione sociale, creando conflitti, come è tipico della mentalità tecnocratica, con le categorie invece che con gli interessi di fondo. Il governo non è l’amministrazione di un’azienda, è il luogo della decisione politica e sociale, e poi, dopo, di quella economica, e poi ancora di quella finanziaria. Qualcosa che suona estraneo e ostile a questo di governo mondiale di coalizione finanziaria – internamente rissosa come tutte le coalizioni di governo – tra Banche centrali, Fondo monetario internazionale, agenzie di rating, qualche frammento rimasto di capitalismo reale al servizio dell’oligopolio e giù, in posizione subalterna e ricattata, i governi nazionali. Insieme, mobilitati nella guerra che usa la crisi come un arma e che ha scelto i popoli come nemici.
E per combattere questa guerra ci vuole la ripresa della sovranità, non con i forconi ma con la politica.

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