Qualche giorno fa è comparsa un’inchiesta sugli  innumerevoli inganni e truffe che riguardano l’olio di oliva e in particolare il cosiddetto extra vergine che negli ultimi anni ha conosciuto un culto da fare invidia a radio Maria. Per cui quando andate a acquistare l’evo dell’Antico Frantoio Ridente, vi potrebbe capitare di acquistare un cocktail di olio proveniente dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Tunisia. Nel migliore dei casi, ovviamente.

Vi chiederete perché in un momento simile ci si possa occupare di queste vicende alimentari che del resto fanno parte di ben radicate “tradizioni” italiane. Invece proprio attraverso l’oro verde si può avere un’idea chiara del sentiero mentale che porta a confondere un problema strutturale, come in effetti avviene nell’inchiesta citata (qui), con il semplice effetto della malafede e della disonestà di qualcuno. Un riduzionismo che sotto varie forme viene spesso applicato ad ogni aspetto della vita del Paese, dall’economia all’incidenza della criminalità organizzata, dalla fiscalità ai diritti del lavoro.

Andando a fondo nel problema delle truffe olearie ci accorgiamo che esso è formato da un insieme di aspetti strutturali dove l’inganno è solo l’ultimo passaggio che riguarda lo scarso amore delle regole e la poca affidabilità di controlli ineccepibili sulla carta. A monte c’è però una legislazione pessima quando non complice, una diffusione di xenofobie alimentari anch’esse derivanti da ignoranza, pastette mediatiche, interessi sottopelle. E in cima un’ incapacità di intervenire per cambiare la struttura produttiva.

Per comprendere bene il dilagare della truffa bisogna partire dal dato di base: l’Italia produce meno olio di quanto ne consumi: mediamente la produzione si aggira sulle 470 mila tonnellate di cui due terzi di extravergine, mentre il consumo va oltre le 700 mila tonnellate. Importare olio o olive è dunque necessario. Ma annose e martellanti campagne di stampa e televisive ci fanno credere 1) che solo l’olio di oliva italiano sia degno di consumo, spingendo pertanto i produttori a barare, cosa che naturalmente può costituire un vantaggio anche sul versante del prezzo. 2) che l’utilizzo di altri oli per uso di cucina è sospetto, indegno, dannoso per la salute, cosa che spesso è una pura invenzione, ma che invece contribuisce ad aumentare i consumi e dunque le truffe. E’ un circolo vizioso.

La realtà è differente: si sa che la qualità dell’olio diminuisce con l’età della pianta da cui si colgono le olive e non è mistero che la Spagna ha un rateo di sostituzione degli alberi che talvolta è dieci volte superiore al nostro. Nel 2010 per esempio, sono state sostituite 20 milioni di piante contro il milione e 700 mila in Italia. E anche la Grecia, nell’ambito del suo piccolo e spezzettato territorio fa meglio di noi. Del resto i Greci con 20 chili annui a testa sono i più forti consumatori di olio di oliva al mondo e pur superandoci di quasi il doppio producono anche per l’esportazione.

Quindi sulla qualità, in termini generali, ci andrei con i piedi di piombo: è vero che l’Italia con la sua complessa orografia ha difficoltà a produrre in maniera massiccia e a costi più bassi, come può invece fare la Spagna, ma ha anche  un lungo elenco di produzione pregiate con 42 produzioni riconosciute a livello europeo. Tuttavia proprio questa varietà può essere causa di fraintendimenti anche nell’uso alimentare perché, tanto per fare un’esempio, il punto di fumo dell’olio di oliva raffinato è teoricamente il più alto dopo quello dell’olio di soia, tuttavia il calcolo avviene su una media: molti olii d’oliva hanno punti di fumo parecchio più bassi di quello dell’olio di arachidi o di altri oli di semi.

Tuttavia calati dentro vere e proprie leggende non riusciamo ad afferrare la realtà nel suo complesso che è disastrosa, come del resto avviene per altri settori dell’economia italiana:  i 170 milioni di ulivi italiani sono divisi tra circa un milione di proprietà fondiarie che a malapena arrivano all’ettaro di superficie. Tutto questo, unito alle difficoltà territoriali ci impedisce di produrre tutto l’olio che ci servirebbe, non ci fa essere competitivi sul piano dei prezzi e non è un caso che ormai la Spagna ci abbia sostituito su tutti i mercati dove l’olio di oliva viene utilizzato marginalmente come in America o in Asia, rallenta l’acquisizione di nuove tecniche di coltivazione e di raccolta, crea i presupposti per una insufficiente sostituzione delle piante, dunque quelli per una qualità non ottimale e dà origine infine a una situazione ideale per un’industria alimentare che voglia speculare.

Così le truffe sull’olio ci portano a squadernare un mondo molto più complicato e assai più allarmante nel quale giocano gli antichi vizi del Paese, la poca serietà dei media, la legislazione insufficiente, spesso ambigua e certo non in grado di sollecitare cambiamenti significativi, la poca consapevolezza generale e la nullità della politica. In questa situazione si fa presto a percorrere il tratto che dall’ evo ci porta al medioevo moderno e la bizzarra cecità o parzialità con cui viene affrontato qualsiasi problema. Sia per affossarci che per salvarci.