Anna Lombroso per il Simplicissimus

Prima che prendessero il sopravvento severo ingiustizialismo e spocchioso cattivismo imperava l’iperglicemico buonismo. Che si riaffaccia potente quando serve a giustificare umori diffusi per non dire di massa. E che io preferisco definire con il più appropriato termine tradizionale: ipocrisia.

Ieri alcuni nostalgici del genere più inclini al pietismo che alla solidarietà hanno somministrato confetti ecumenici e equanimi di comprensione sodale alla sedicenne che ha accusato due “stranieri” che puzzavano di averla stuprata e ai “nomadi” del campo, e perfino di una sia pur parsimoniosa indulgenza per i cittadini che manifestavano “pacificamente” il loro malumore nei confronti degli ingombranti “altri”.
È così, in un paese estremista, se non si è riottosamente leghisti, silenziosamente o perentoriamente xenofobi, arcaicamente o modernamente fascisti, si scelgono le nuove buone maniere, le menzogne convenzionali di una accoglienza universale, di una tolleranza totale e indistinguibile nella quale tutti hanno un po’ ragione e nessuno ha davvero torto e dove è meglio compatire e scusare che capire, nel duplice senso di comprendere e accogliere le ragioni legittime e solo quelle.

Si declina così l’invettiva, molto gradita in rete, del vice direttore della Stampa nel suo personale Specchio dei tempi, dimentico dei titoloni sparati dal suo giornale contro i “bubboni” estranei presenti nel pingue e garbato tessuto cittadino. E come lui altri riposano volentieri nella convinzione che lo spirito del tempo, certi modelli culturali e sociali, la cattiva maestra televisione, la lega, Berlusconi, la libertà sessuale, la sessuofobia insomma tutto e il contrario di tutto in un crescendo di conformismo, legittimi una adolescente a ricorrere all’infamia razzista e xenofoba per “essere creduta”. E che faccia magari spendere un po’ di comprensione anche per le bestie artefici del pogrom, che in fondo sono ignoranti, pasciuti di violenza, alimentati di pregiudizio, intrisi di livore. E anche per la dirigente del Pd “impotente” a trattenerli con la civile persuasione ma ben persuasa a partecipare alla marcia dei torinesi brava gente.

Perché a molti, i diversi, clandestini, omosessuali, zingari, anarchici, piacciono di più se sono vittime. E quella ragazzina, sapientemente crudele, lo sa, lo sa talmente da aver scelto accuratamente gli interpreti per la sua sceneggiatura in modo da diventare magicamente una bis- vittima e di godere in quanto tale il suo quarto d’ora di orribile celebrità. Sarà che poche cose al mondo mi fanno ribrezzo quanto essere una vittima e forse per quello mi ripugna la cosiddetta riforma dello stato sociale che ci stanno imponendo come necessaria. E sarò una bastarda, poco comprensiva. Ma non riesco a non sospettare dell’ostensione compassionevole della condiscendenza per la bassezza altrui, che finisce per essere quanto mai comprensivi della propria e che si esprime con la tradizionale formula liberatoria: io non sono razzista, i miei migliori amici sono ebrei, rom, neri, islamici, e così via nella liturgia dell’ integrazione si, ma “unidirezionale”.
Ben nutriti dal cinismo di governo, quello precedente e adesso metteremo alla prova la discontinuità dell’attuale, gli struzzi alzano pigramente il capo solo in occasioni di elevatissimo standard di mostruosità, disarmati di fronte alla continuità oppiacea dell’orrore tanto da diventare omertosi e complici. Contriti certo, ma soddisfatti sotto sotto della loro superiorità, quella che invece condanna altri, diversi, alla pena di sopravvivere ai margini di tutto, nella tenebra che circonda le nostre città, là dove il tessuto urbano, la “civiltà” accumula i propri rifiuti. Accettabili se diventano icona nel bene e nel male del folklore, testimonianza antropologica prigioniera dello stereotipo, temuti e disprezzati.

Per gli struzzi non importa se gli “stoccati” nelle discariche disumane a ridosso di quartieri commercialmente poco ambiti, in un contagio di sommersione e emarginazione, siano italiani da generazioni, o scampati da guerre sconosciute in luoghi terribili e televisivamente familiari, Mostar, Srebrenica. Tutti uniti nella lotta contro i sorci e nella condanna ad esserlo loro stessi. Gente di serie B, ultimi degli ultimi anche nell’olocausto, costretti a misconoscere l’istinto nomade come una colpa e a espiare insieme ai furti e il fastidioso elemosinare anche la macchia di una deportazione “democratica” e di una prigione senza sbarre, delle quali non ci vergogniamo abbastanza.