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Psicopatologia della crisi

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Oggi vi stupirò, prendo le distanze dalla lugubre compostezza di stato, mi abbandono alle passioni, comprese quelle tristi e forse proferirò anche qualche incontenibile e briosa invettiva, che quanno ce vo’ ce vo’.

Bersani si orienta nei propositi governativi tramite la lettura dei giornali, la aule parlamentari nel segno della continuità sono sostituite dai talkshow, a noi viene somministrata qualche indiscrezione sul nostro buio domani con la minacciosa posologia di un’amara medicina “necessaria”: il ghe pensi mi è stato sostituito da “lo facciamo per voi”, compresa la metamorfosi istantanea del conflitto d’interesse “perfetto” in rinuncia temporanea, speriamo, a carriere prestigiose in nome dell’interesse generale.
A noi sembra restare solo la collera, legittima perché siamo passati dalla condizione di disprezzati dalla plutocrazia dei magnati a quella di perseguitati dalla oligarchia degli esosi contabili turbofinanziari.
Invece di esaminare le oculate anticipazioni dei salassi e dell’onta ai diritti di chi lavora, vorrei sottoporre – da dilettante, perché da qualche giorno ho in antipatia gli addetti ai lavori esageratamente specialistici – gli umori della compagine governativa a una indagine psicologica.
È che io quando mi odiano voglio sapere il perché. Molti si sono trastullati a comprendere perché dal riformismo operoso siamo passati al rancore e all’invidia “orizzontali” perché sembra che non riguardino più solo e verticalmente quelli che stanno in basso rispetto a quelli più su, nel progressivo e rapido disfacimento della struttura e dei legami di coesione sociale.

Il Devoto Oli offre una illuminante definizione della parola “crisi” come esacerbazione o insorgenza improvvisa di fenomeni morbosi violenti. Si riferisce a una patologia e quindi si attaglia perfettamente a questo stato di degenerazione civile tra primato del più sgangherato profitto immateriale e disaffezione concreta dalla democrazia.
E come si sa la crisi accentua la conflittualità e la avvelena fino alla violenza e alla prevaricazione. E se incrementa le guerre tra poveri, intossica anche il sopruso del potente e dell’arrivato sul marginale e il sommerso.
E deve essere proprio così. L’odio risentito indirizza tutti verso lo stesso punto d’arrivo: l’antipolitica dell’uomo qualunque quello del “perché loro si e io no?” e il rancore dell’ambizioso che ha compiuto l’impervia salita e che non vuole minacce o attentati al suo privilegio più o meno arduo, e che sibila “me lo sono meritato”. Immemore di certe facilitazioni, dimentico di certi compromessi, epurato di ogni scrupolo chi si afferma oggi sembra portato più che mai a detestare e penalizzare non i pochi che stanno un po’ più su, spesso vetuste e paternalistiche memorie residuali da impiegare come benefici protettori nell’ascesa. No, odiano le ragioni degli altri perché si scontrano con le loro irragionevoli prerogative, con i loro ingiusti vantaggi, con i loro monopoli inspiegabili laddove nemmeno la meritocrazia ha saputo sostituire le prerogative di classe.

Vogliono che le loro ricchezze, materiali e non, restino intoccabili e irraggiungibili dalla cittadinanza “separata” dei giovani, dei vecchi poveri, delle donne oltraggiate dall’esclusione dal lavoro, dagli uomini e dalle donne rabbiosi per le troppe perdite, della dignità e dei diritti. Ostacolano la redistribuzione perché non voglio cedere nulla delle loro sicurezze in un mondo sempre più instabile e incerto, perfino per loro.
Sono cambiati gli ingredienti e i soggetti dell’invidia sociale e del risentimento, mutati in una specie di presunzione intristita, come la chiamava Nietzsche, di chi si sente minacciato oscuramente dai desideri di acquisizione di altri dai lui e dei suoi affini e non vuole subire sottrazioni. Temono che chi patisce la disuguaglianza sociale possa usurpare ingiustamente la loro superiorità di censo o conquistata. E quelli fatti da sé non rompono la tradizione di una proterva e sprezzante difesa a ogni costo dei vantaggi acquisiti.

Diciamo la verità, ci odiano e pensano che a differenza dei loro idola e dei loro santuari non meritiamo niente nemmeno quei social benefits apprezzati dal populismo, nemmeno quei risarcimenti rituali pensati per offrire minime compensazioni. Le applicazioni del liberismo non sono solo contro lo stato, sono contro il popolo, ridotto negli atri muscosi. Lavorano sul terreno più arido delle strutture, con la freddezza delle azioni impersonali e burocratiche, sembrano avere il volto impassibile, austero e compassato della altera razionalità.
Per fortuna siamo poveri e i poveri sono matti. E pare spetti ai matti ritrovare la ragione al posto dell’ubbidienza.

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