Site icon il Simplicissimus

Magri, la “fatica” della morte

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mi trovo a scrivere ora di Lucio Magri, quando si è zittito il coro di prefiche compiaciute del lutto di un famoso che aiuta a aggirare il tabù, quando riesco a dimenticare la nefanda descrizione del salotto verdurin elargitaci da Repubblica coi dolenti che elaborano il lutto sorseggiando martini e mangiando i manicaretti preparati dalla fedele fantesca.
Sarò come al solito Franti l’infame, ma il moto di compassione che ho avuto non è per una morte scelta e quindi libera, non per la resa alla quiete preferendola alla lotta e alla vita. Ma per la resa forse non voluta ma ineluttabile alla più vieta e conformista retorica dello stoicismo ripassato in fretta su Wikipedia, del pessimismo dell’uomo superiore, del disprezzo per il mondo e la carne dell’affrancamento dalle passioni felici o tristi che siano. Insomma il contrario della lotta politica, della resistenza e perché no? del socialismo.

Ho apprezzato e mi sono anche emozionata leggendo qui il Simplicissimus. Ma temo che questa morte insegni poco a chi invece preferisce attribuirle il significato simbolico di un legittimo, stanco, estraniarsi dal combattimento, dalla militanza, dallo stare non sopra o sotto, ma davvero insieme “con” gli altri, scegliendo l’appartarsi anche definitivo. Una ratifica indulgente delle dimissioni dalla socialità per che considera l’essere un disilluso apolide della polis una scelta morale in tempi di eclisse dell’etica, comprensibile in un ottantenne depresso e solo, ingiustificabile in un vasto segmento di italiani di tutte le età, risentiti e accidiosi.

Non possiedo gli strumenti per parlare del suicidio, tema filosofico che ha attraversato tutti i tempi di tutti gli uomini. E non è su questo che voglio riflettere. Ma sul privilegio, sull’orrenda iniquità insita nella civiltà per la quale anche la scelta di morire, di esercitare la propria volontà nell’estrema decisione secondo modalità condizionate dalla propria condizione sociale, così che anche il suicidio può essere atto disperato e orrendo e cruento, o lusso anodino, con pettegolezzi o meno. Solitario comunque, perché il morente è sempre solo, per citare Norbert Elias, ma più o meno umano.
Non ho mai voluto cedere ai pregiudizi e al cattivo giornalismo sui comunisti in cachemire, sulle vacanze a Cortina o il capodanno in Kenia, nemmeno sulla scarpe o le barche e meno che mai sui fidanzamenti con le divine mondane. Non ne ho i numeri, sono convinta che la vita sia troppo breve per bere il vino cattivo, se si può bere quello buono e in bicchieri sottili anziché in quelli della Nutella con su topolino. Se si può, certo, e sono persuasa che un buon nebbiolo non condizioni necessariamente convinzioni e opinioni e ideali e valori.
Ma penso che viviamo in una contemporaneità ferocemente ingiusta se chi se ne vuole andare da essa, magari orribilmente ferito nel corpo e nella dignità e impotente a concedersi una via d’uscita civile, deve possedere i mezzi economici per permettersela. Se anche il suicidio per qualcuno che lo deve o vuole delegare va “pagato”, se la morte si sconta non solo vivendo ma anche conquistandosela con fatica, con l’orrore, con il sangue senza lacrime, confermando anche in quell’atto l’appartenenza ai diseredati, ai non voluti, ai sommersi.

Exit mobile version