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Da Angela al riformismo

Angela Merkel nel 1973 a un campeggio con gli amici della gioventù socialista

Per capire cosa stia succedendo in Italia, bisogna credo andare in Germania. Forse nessuno come Angela Merkel può essere un esempio appropriato per spiegare come da noi si sia arrivati alla scomparsa della cultura riformista divenuta ormai completamente marginale, surrettiziamente sostituita da ricette liberiste alla Ichino, calpestata dalla ambigua modernità di politicanti confusi e chiacchieroni o affidata alla retorica di narrazioni che paiono epitaffi dell’impossibile.

Spiegare come la donna più potente del mondo, al di là delle sue difficoltà elettorali, sia completamente appiattita su ricette assurde e controproducenti, perché si aggrappi all’austerità, soprattutto quella degli altri, come unica possibile via d’uscita dallo tsunami nonostante gli esempi storici della crisi del ’29 e del new deal, nonostante ciò che dicono schiere di economisti, ciò che suggerisce Obama, quello che invoca l’Europa debole, ad eccezione pare di Monti, è qualcosa che va spiegato in chiave umana e psicologica prima che politica. In lei si concentrano in maniera forse più intensa le scelte e le stigmate di chi ha oggi fra i 50 e i 70 anni, il travagliato passaggio dall’idea socialista o comunque da quella di una società più giusta incarnata in Italia dal riformismo anche di marca Pci, a quella dell’abbondanza materiale e della crescita infinita. Insomma dell’ultimo dogma capitalista.

Anche per lei, vissuta praticamente sempre nella Germania orientale, membro della Libera Gioventù Tedesca, l’organizzazione del partito, membro dell’Agit Prop all’Accademia delle Scienze, il momento topico è stata la caduta del muro. Come lo fu per molti comunisti italiani, per molto riformismo italiano. Lo sforzo di riconsiderare il mondo alla luce dell’implosione dell’Unione Sovietica che peraltro era la falsa reificazione del marxismo, ha prodotto nel corso degli anni a una completa perdita di anticorpi nei confronti dell’ iper capitalismo liberista, portando man mano ad accettarne tutte le tesi. Nella Merkel il percorso è piuttosto evidente: da dirigente dell’Agit prop al coinvolgimento nel movimento democratico Il popolo siamo noi, a portavoce del governo di transizione di Lothar de Maiziere  nelle file di Risveglio Democratico, l’approdo per fusione alla Cdu di Helmut Kohl che aveva la riunificazione come stella polare. Ma ancora in transito tanto da divenire nel ’94 ministro per l’Ambiente e per la sicurezza dei reattori nucleari: questo in Germania significava un certo distacco dagli Usa e dai potentati economici nazionali e non che premevano per le tecnologie dell’atomo.

Ma negli anni 2000 eccola premere per un rallentamento della dismissione delle centrali nucleari voluta dai socialdemocratici, eccola appoggiare Bush per l’invasione dell’Irak, arrivando ad accusare Schroeder di essere antiamericano ed eccola farsi portavoce della deregolamentazione sul lavoro che invece la Cdu aveva costruito con accuratezza, cosa che portò molte grane elettorali e che il partito superò solo comunicando ufficialmente che non avrebbe mai appoggiato una flat tax. Ed eccola infine in un dibattito del 2005 con Schroeder copiare pari pari un passo il brano di un discorso di Reagan risalente al 1980, quando ancora lei era dentro la gioventù del governo di Pankow.

La trasformazione è completa, l’adesione totale. Ma dopo tanto sforzo emotivo ed intellettuale per passare da una certa visione del mondo a un’altra non è più possibile accettare che il “mondo nuovo” nel quale si è entrati sia ormai già il passato. Che il moderno è diventato il vecchio, che alla fine la sconfitta sta cominciando a delinearsi anche per i vincitori. E così ci si aggrappa la decalogo introiettato con tanta fatica, anche quando si sa che porta al disastro.

Facendo le dovute differenze di culture e di ambienti è la stessa ragione per la quale un vastissimo schieramento è convinto che abbattendo le tutele del lavoro si favorisca la crescita, cosa smentita da tutte le statistiche comprese quelle dell’Ocse. O che questo possa portare a una perequazione tra generazioni, artificio retorico fra i più vieti. O che il privato sia meglio del pubblico, cosa che persino la Banca mondiale ha dovuto smentire già nel 2005, almeno per ciò che concerne i cosiddetti beni comuni. O che la salvezza economica e la moralizzazione si ottengano per via ragioneristica o di bilancio. Insomma il sesso degli angeli. I moderni vecchi sono i riformisti del peggio, i patetici epigoni di un mondo che non riescono più a ripensare.

Due weltanschauug sono forse anche troppe per una vita. E alla fine è consolante, riposante arrivare a non averne nessuna che è poi il risultato finale di una generazione.

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