Anna Lombroso per il Simplicissimus

A volte il prevedibile andamento statistico viene sconvolto da eventi estremi e innaturali.  Catastrofi e stragi ormai hanno poco di sorprendente, imprevedibile  e inatteso. Piogge torrenziali compiono il destino di territori depredati e manomessi. L’irrilevanza sociale, morale e civile degli operai li consegna con tragica frequenza a una morte immorale e incivile. Alla contabilità della strage  degli innocenti – e infatti  le chiamano morti bianche – oggi 25 novembre, si sono aggiunti altri due caduti. Ieri sette.  L’Osservatorio indipendente di Bologna fatica a tenere il conto. Saranno trecento da inizio anno, magari non giovani e forti, qualche donna molti stranieri. Morti arcaici :  muoiono come il muratorino cascando da impalcature, precipitando in serbatoi, bruciati dentro a  forni, schiacciati, come oggi,  da distributori di detersivo, in un tempo nel quale ci raccontano che il lavoro ormai non prevede più gli operai per essere moderno.  Che la contemporaneità esige la dissoluzione della fisicità  finanziaria e occupazionale nel flusso impalpabile telematico, nella galassia delle relazioni simboliche: strutture a rete, imprese virtuali, telelavoro.

Si sono morti fuori programma, fuori moda, poco globali che l’hanno vinta perché il cinico “snellimento” degli organici, le ristrutturazioni, la smania avida di minimizzare i costi mordono nella carne viva l’apparato produttivo,  rendono le aziende piccole o grandi più avide, trascurate e disinvolte, la manodopera più spaventata, ricattabile e disattenta.

 Fabbriche, cantieri, piccole imprese che rivendicano l’adesione spirituale, il sacrificio in nome della necessità dei propri lavoratori in nome della propria debolezza sul mercato, attribuibile a poca capacità, scarsi investimenti, logoramento della competitività, trascinano con sé i propri dipendenti,  ne impoveriscono la forza e la dignità, lo rendono vulnerabile e coartato.

 Allora cominciamo con il chiamarli senza ipocrisia, omicidi bianchi: gli esecutori ci sono, ci sono le responsabilità e ci sono i “moventi”. Sempre gli stessi prodotti da cause interne al nostro modello di sviluppo: frammentazione del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro, la catena opaca e incontrollata di appalti e subappalti, la condizione precaria degli addetti e la loro fisiologica precarietà. E   l’abbassamento del costo del lavoro e la preminenza aberrante della cosiddetta microimpresa nel nostro tessuto produttivo, che, nella sua diaspora, sottrae segmenti di prestazione d’opera a controlli e sorveglianza.
Un sistema economico finisce per produrre fisiologicamente  vittime sacrificali sull’altare del profitto, dell’indifferenza a diritti e regole, dell’elusione di controlli e, molto spesso, grazie alla corruzione e alle complicità dei soggetti incaricati,  della latitante sorveglianza e della repressione su comportamenti criminali.
La sicurezza è considerata un impiccio e un ostacolo. E non solo per i padroni che vogliono fare presto, spendere poco in sistemi di sicurezza, incrementare la produzione. Anche per i lavoratori che preferiscono rischiare piuttosto che ribellarsi ai soprusi, piuttosto che entrare in attrito coi datori di lavoro e i kapo, che non reclamano a voce abbastanza alta formazione, controlli e attrezzature. La detassazione degli straordinari, la decisione dell’Ue di abbattere il limite delle 48 ore hanno contribuito a aumentare i tempi di lavoro facendo crescere esponenzialmente i rischi.

L’Italia ha un numero di morti sul lavoro più alto rispetto alle altre nazioni europee sia in termini assoluti sia in termini relativi. A questo dato ne corrisponde un altro: la media e grande impresa italiana dal 2007 ha ridotto ininterrottamente la forza lavoro accumulando nello stesso tempo profitti mai così grandi nel nostro Paese e determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno ricchi che è il maggiore dell’Unione.
A mantenere la dinamica occupazionale sono poi quelle piccole imprese al di sotto dei 10 dipendenti, “cravattate” dalle banche, che lavorano senza capitali, che sottopagano, che reggono le loro sorti sul precariato, sul “nero”, sui sub appalti al massimo ribasso, sugli orari di lavoro più lunghi e sulla totale elusione della sicurezza, i teatri delle morti per  stanchezza e sottovalutazione del rischio.  Di quelli che muoiono soli, perché sono vittime due volte, di quegli omicidi e del venir meno di quel legame solidale, dell’assenza di una rete sindacale reticolare che determini l’autodifesa e la rivendicazione di diritti.
Con la sentenza della Thyssen si era stabilito un principio: è un crimine  uccidere in nome del profitto.  Ma profitto e  assassini vengono applauditi alle convention moderne e globali di Confindustria e continuano a piacere quelli che praticano la legge del più forte.