Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ieri sera come ogni sera andava in onda la stanca narrazione dei meriti e delle colpe delle speranze e delle illusioni, tutte riassunte e interpretate magistralmente dal cinico “pragmatismo” del filosofo Cacciari convertito senza dubbi o ripensamenti alla pratica modernista del far sbrigare faccende a gente del mestiere. Bofonchiando dentro alla barba e borbottando incomprensibilmente come pare sia ormai inveterata abitudine dei partiti del nord, il disincantato ammiratore dello Steinhof, luogo di
“pellegrinaggi infiniti” e “follie interminabili”, ha voluto mostrare la bellezza della ragionevolezza più che delle ragioni dei cittadini: “ma che crescita ma che riforme, adesso si devono mettere a posto i conti”.

Il fan del superuomo scende a patti con l’uomo qualunque disilluso e risentito. E lo si è visto bene quando nella sceneggiatura della piazza di cartapesta ha fatto irruzione qualcosa di splendente e consolante e “normale” e vero. Due studenti delle facoltà di economia di Bologna e di Roma hanno parlato di aspettative, di speranze possibili, di alternative all’ubbidienza, di soluzioni, praticabili, se a monte si compiono scelte eque. Della eventualità di un default “guidato”, della necessità di una patrimoniale coraggiosa i cui proventi vengano indirizzati verso investimenti per la crescita.

Secondo la più stantia attribuzione delle parti in commedia, tutti, compreso l’isterico Cremaschi, hanno teneramente irriso le esternazioni dei ragazzi. Lo scetticismo paternalistico è bipartisan: lasciamoli sognare, è un appannaggio della giovinezza, ma non disturbino e ci lascino lavorare.
Ma a ben guardare ieri sera non era rappresentato lo scontro generazionale tra concretezza e utopia o tra “realisti” visionari. Anzi, se proprio vogliamo ricorrere a delle categorie, si fronteggiavano riformisti e conservatori. Da una parte i custodi di una stato con la minuscola, di una condizione mediocre di brevissimo respiro e corto raggio, più effimero del governo. Dall’altra i ragazzi che vorrebbero essere liberi di esprimersi e partecipare delle scelte e del futuro, ben poco visionari se parlano di riformare scuola e università e non attuare compiutamente l’infame disegno della Gelmini, di non erogare i quattrini promessi all’istruzione privata con un colpo di mano dell’ultimo minuto, ripristinando il primato della scuola pubblica.

Se insomma chiedono a gran voce che le misure di risanamento non siano solo sacrifici ma investimenti nella crescita, che l’equità non sia un tema da editoriale sul Corriere, ma l’edificio nel quale collocare misure di contenimento degli sprechi e di sviluppo delle competenze, dell’istruzione e quindi della competitività. E che sia possibile, come è possibile, porsi nei confronti dell’Europa, peraltro pericolante anche sul fronte baltico, con la forza di un programma che abbia una consistenza politica e sociale e non solo le fattezze della micragnosa contabilità iniqua diseguale e sleale di Brunetta e Tremonti.

Con buona pace di Cacciari non serve l’aritmetica, servirebbe invece proprio la sua filosofia, se è davvero l’amore per la sapienza, perché ci occorre conoscenza insieme alla solidarietà e all’uguaglianza per far tornare i conti della spesa ma anche del guadagno, quello del futuro. Se economisti devono essere, io, agli austeri professori e ai sobri bancari, preferirei quei ragazzi, che dovremmo stare a sentire e che dovrebbero stare a sentire anche gli ex ragazzi della Bocconi. Perché hanno bisogno di andare a ripetizione di filosofia e di politica, se il suo fine è l’armonioso vivere insieme e felici.