Con quello che succede, con l’angoscia che serpeggia, con il cuore in gola. Ma sono molti anni che il mulino bianco è sceso in campo e quindi non c’è da stupirsi se il fustino bianchiccio, ovvero Cameron in crisi di consensi non abbia trovato di meglio che chiedere ai sudditi di sua maestà se sono felici. Già perché mentre il suo governo  sta con le forbici in mano a tagliare servizi, l’idea è quella distrarre le persone con il famoso Fil, la felicità lorda, in cui non crede nemmeno più nessuno nemmeno in Butan.

Le domande che vagabondano dal privatissimo dei rapporti di letto ai salari si propone di essere uno zibaldone inutile e ambiguo con il quale tuttavia si può fare distrazione di massa. Infatti non c’è niente di più ambiguo della felicità, parola che nei linguaggi europei ha cominciato ad essere in uso verso il Seicento e ha conosciuto la sua fortuna nel ‘700. Ma già nelle sue radici conserva qualcosa di indeterminato: secondo i linguisti la parola felix che enterà poi in tutte le lingue romanze, deriva da feo, ovvero produco, un verbo legato alla fertilità derivante dalla radice indoeuropea  fe  che rimanda al significato di fortuna. Nelle lingue sassoni la radice hap o gnae e significa anche qui fortuna o stupidità.

Forse per questo la felicità ha sempre avuto due chiavi di lettura: quella individuale e quella sociale. E quindi anche due usi, uno progressista e l’altro reazionario. La felicità reazionaria è quella che ti dice che puoi essere felice anche con un tozzo di pane, in un amore, nel rapporto con qualcuno. Si può essere poveri e felici, il che naturalmente è una possibilità che piace moltissimo al capitalismo. L’altro invece, che ha avuto il suo inizio concreto con la costituzione giacobina, acquista una dimensione sociale: la felicità è anche liberazione.

Nel passaggio dalla Rivoluzione americana alla Rivoluzione francese la felicità da diritto negativo, come nella carta Usa, diventa diritto positivo e  per esempio Saint-Just o Babeuf, considerano la miseria come una questione sociale di oppressione e sfruttamento. Prima di loro Condorcet e Toqueville utilizzano invece la felicità possibile per giustificare la schiavitù e la povertà, come del resto anche Voltaire. Mentre Rousseau e Diderot polemizzano contro l’ideologia che vorrebbe felice anche la miseria più nera. Insomma la rivendicazione della felicità acquista un senso solo all’interno della conquista di diritti civili.

Nel pensiero tedesco da Kant a Hegel che è stata l’espressione teorica della rivoluzione francese, si polemizza contro la “felicità vegetativa” contrapposta a quella dei diritti e della dignità. Hegel in particolare si batte per sostituire alla felicità il benessere da salvaguardare contro l’astrattezza del liberalismo di mercato.

E negli inglesi Bentham e Adam Smith  infine prevale la formula della maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile di persone che può apparire molto ragionevole, ma che trova proprio in quel “possibile” una via di uscita e una resa a qualsiasi stato di fatto.

Insomma dire felicità da un punto di vista generale  non vuole dire nulla, se non si specifica di cosa stiamo parlando: se di un’armonia della società in cui possiamo essere soggetto di diritti e di dignità o del nostro singolo mondo emozionale. Tuttavia siamo portati ad apprezzare istintivamente i governanti che si interessano di una nostra teorica felicità anche quelli colpevoli della peggiore infelicità pubblica. Forse dovremmo tornare al vecchio concetto greco di eudaimonia che comprende sia l’appagamento personale del singolo, ma anche e necessariamente la sua collocazione e azione nel mondo. E in cui una felicità solamente privata è la felicità degli idioti come la definì Pericle, almeno secondo Tucidide.

Quindi è davvero infelice quel mondo in cui si distribuiscono questionari sulla felicità che dovrebbe invece essere una misura comune e accomunata, l’indagine stessa è segno di confusione e di sconfitta. Anche se Cameron sembra bello contento, al modo di Pericle.