Ma arriva sempre il momento del contrappasso e così in questi giorni gli emissari del premier e di Tremonti sono a Pechino a supplicare che il potente impero rosso, formalmente comunista, non venda quel 18% di bpt italiani in suo possesso, anzi ne compri di nuovi e investa nelle residuali grandi aziende italiane. Cosa questa che ovviamente dovrà avere una consistente contropartita sulla cui natura non è difficile fare un’ipotesi: l’Italia come testa di ponte per l’industria cinese in Europa.
Se il parossistico appello all’anticomunismo avesse un qualche significato e non fosse soltanto un agitare spettri e specchietti per le allodole, per il Cavaliere sarebbe uno smacco gigantesco andare a chiedere proprio alla potenza comunista di salvare l’Italia. Se le allodole potessero pensare chissà quale giudizio darebbero su stesse e sul loro uso di comunista come un’offesa. Ma è una questione puramente astratta: se potessero pensare non sarebbero state allodole di Silvio.
Ma anche se i libri di Tremonti avessero un senso, dovrebbe essere un grave smacco per il ministro dell’economia andare con la mano tesa a Pechino, quando per anni ha denunciato il pericolo di colonizzazione dell’Europa da parte della Cina.
Così adesso Berlusconi dovrebbe dire, vi ho salvato dai comunisti italiani (ma chi, il conte Max?) e vi ho salvato grazie ai comunisti cinesi. Tutto torna però: il non senso del berlusconismo si arrende alla realtà e i suoi dazebao si rivelano per quello che sono sempre stati: carta straccia.