Anna Lombroso per il Simplicissimus

Anche i ricchi piangono.. di uno sappiamo che riempie un gran vuoto affettivo con molti trastulli. Di un altro che non gli piaceva la severità militaresca della caserma così anche lui ha preferito una garçonniere divisa con un amico e figuriamoci che bei pigiama party. E del terzo abbiamo appreso che ha ricevuto in dono una casa vista Colosso ma sobriamente va solo a dormirci, anzi sospettiamo si butti vestito un pagliericcio e non si sia dotato nemmeno di un fornelletto a spirito per il caffè.
E non venitemi a dire che la vita della casta è una pacchia: soli, malvisti, costretti a pagarsi affetti e consensi, spiati, criticati, invidiati, chiusi in una bolla artificiale i poveri ricchi/ poveri potenti sembrano dividere con noi malessere e mediocrità, aggrappati come naufraghi alle poche sicurezze, pronti a chinarsi come il giunco aspettando che passi la piena.

A guardare questi spaccati di vita micragnosa, arida, minacciata sembrano passati i tempi delle quotidiane bravate, delle orge del potere anche sessuali, che ci hanno fatto assuefare alla peggiore bestialità, ai vizi privati diventati ostentate pubbliche virtù, alle intemperanze spacciate come animoso dinamismo. E’ plausibile che si tratti della nuova sceneggiatura di Endemol: i tempi sono difficili per tutti, hanno messo a dieta anche le vacche grasse e impenitenti, in fondo sono dei poveracci anche loro, con i posticci, la gastrite, un letto vuoto, i tradimenti di amici un tempo compiacenti oggi in rivolta.
Le loro sconcezze diventano patetiche. Se una volta la loro ribalderia era esaltata come spregiudicatezza, ora viene guardata come uno di quei tic turpi e vergognosi di qualche vecchio laido, che non si nasconde come a dire: presto o tardi finirete come me. C’è qualcosa di profondamente amorale in questo: questa classe dirigente trionfa perché c’è una cifra comune, quella di un ego individuale che non sa diventare super-io civile, di individui che considerano bene quello che li gratifica e male quello che li danneggia personalmente.
Che per favore nessuno mi parli di antipolitica per definire la critica più o meno matura a questo ceto loro non hanno nulla a che fare con la politica così come un certo ripiegamento ostile su un privato a-sociale, un ritirarsi dalla sfera pubblica non ha nulla a che fare con la cittadinanza.

Credo sia tardi per investigare sulle mutue responsabilità. Chi abbia per primo, classe dirigente o cittadini, creato le condizioni del neo qualunquismi, della disponibilità a una delega senza rappresentanza, del bisogno o dell’induzione all’affidamento della cosa pubblica a un potere remoto, che non impegna e con cui non ci si impegna.

Qualcuno ha definito questa fase la “democrazia della diffidenza”, basta sul sospetto fondato e sistematico dei non-rappresentati nei confronti del fallimento e dell’inaffidabilità dei rappresentanti. Ma questa crisi di legittimazione è stata resa possibile dalla “secessione” dalla polis, dalle dimissioni dalla coscienza delle responsabilità personali e collettiva, dal confronto grottesco tra leader qualunquisti e uomini qualunque.
Si, sarebbe bello che questo “sdegno” che serpeggia si chiamasse anti im-politica, perché è tale la vocazione unanimista a retrogusto egemonico che guida le nostre “guide” e la loro retorica, l’enfasi del partito di tutti, che vuol mettere a tacere passioni e bisogni, per annientare insieme ai confronti ideali anche i conflitti sociali e di classe in una improbabile poltiglia di avvelenata inquietudine e di inimicizia.
Lo stesso istinto a unire ciò che “deve” essere diviso, a conciliare quello che è giusto sia contrapposto, bene e male, legalità e illegalità, ma pi capitale e lavoro, laicismo e confessionalismo, destra e sinistra, etica e affari e soprattutto pubblico e privato.

Si è la loro l’antipolitica, quel racconto edificante intento a produrre macerie, quel primato dell’esistente imprescindibile e insuperabile in nome del quale bisogno rinunciare a aspettative, utopie, diritti. Mentre la politica dovrebbe proprio essere il contrario, trovare armonia dei contrasti in nome di una finalità comune, apertura dell’esistente a alternative possibili spesso contrapposte, scelta di altre prospettive e ansia di possibili trascendimenti creativi e luminosi. Guardare in alto, guardare davanti, guardarsi allo specchio, per imparare a sentirsi nel giusto con gli altri e a volte anche contro gli altri.