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Cancellato il Sistri: licenza di inquinare

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Cancellato bruscamente dalla manovra economica del Governo, il Sistri (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti), una specie di anagrafe informatica, era nato, con molte ambizioni, nel 2009 su iniziativa del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nel più ampio quadro, si legge sul sito del dicastero, di innovazione e modernizzazione della PA per permettere l’informatizzazione dell’intera filiera dei rifiuti speciali a livello nazionale e dei rifiuti urbani per la Regione Campania.

“Il Sistema semplifica le procedure e gli adempimenti riducendo i costi sostenuti dalle imprese e gestisce in modo innovativo ed efficiente un processo complesso e variegato con garanzie di maggiore trasparenza, conoscenza e prevenzione dell’illegalità”. È quasi epica la prosa del sito: “La lotta alla illegalità nel settore dei rifiuti speciali costituisce una priorità del Governo per contrastare il proliferare di azioni e comportamenti non conformi alle regole esistenti e, in particolare, per mettere ordine a un sistema di rilevazione dei dati che sappia facilitare, tra l’altro, i compiti affidati alle autorità di controllo”.
Ma non basta: “I vantaggi per lo Stato, derivanti dall’applicazione del SISTRI, saranno quindi molteplici in termini di legalità, prevenzione, trasparenza, efficienza, semplificazione normativa, modernizzazione”.

Eppure nel silenzio distratto di tutti compresa miss liceo – forse durante i Consigli dei Ministri manda sms agli amichetti – questo caposaldo della lotta all’illegalità e della promozione di efficienza e di comportamenti virtuosi di operatori e cittadini ha perso vigore, appeal e forza comunicativa. In una manovra di tagli la cancellazione non rappresenta certo un gran risparmio: si ritorna alle procedure tradizionali e al supporto cartaceo mentre decade il possibile sistema sanzionatorio dei trasporti abusivi, cespite solo apparentemente irrisorio e invece fortemente simbolico oltre che dotato di grande potere deterrente almeno per i trasgressori “isolati”. E secondo la regola aurea del governo i tagli sono studiati per risparmiare chi potrebbe e dovrebbe subirli, così si esimono le aziende dagli oneri degli adempimenti necessari alla realizzazione dell’impalcatura del Sistri. Oneri che se si credesse davvero all’economicità della semplificazione e dell’efficienza, verrebbero visti come vantaggiosi investimenti.

Finisce così il proposito di istituire una memoria elettronica della produzione, dei “viaggi”, della destinazione dei rifiuti, “odiata dalle imprese” secondo un felice titolo del Corriere della Sera. “Proposito”, perché da più di un anno si susseguivano rinviii e proroghe, errori e rettifiche e scatole nere inutilizzabili e lamentele degli scrupolosi che si sono pagati iscrizione software e formazione del personale e dei furbi che dicono che non lo possono fare, secondo l’abitudine nazionale che fa si che una giurisprudenza ambiziosa sia desiderabile ma fisiologicamente inapplicabile. Certo in questa compagine proprio non si parlano tra loro. Il Sistri doveva costituire un complesso di misure di razionalizzazione e semplificazione, impedendo frodi e abusi proprio secondo i principi costitutivi del dicastero voluto dalla Lega, ma proprio la Lega non lo vuole, Tremonti lo taglia, la Prestigiacomo si stupisce, Maroni non se ne accorge nemmeno né prima né dopo ancorchè sia un chiaro omaggio trasversale alla criminalità organizzata. E farà lo gnorri anche l’Ue che, esercitando su di noi una tutela circoscritta alla finanza, girerà semplicemente su di noi le sanzioni che non abbiamo avuto il coraggio di comminare.

Non lo voleva proprio nessuno insomma il Sistri, in nome di quella libertà nazionale che è solo “licenza” e licenziosità, esonero da regole e norme, sottrazione dalle leggi e spregiudicato approfittarsi delle difficoltà per legittimare disprezzo per il bene comune e l’interesse generale.
È che il problema dei rifiuti è oggetto di una generale rimozione, finchè la puzza non prende la gola e l’emergenza perpetuata non diventa una apocalisse ambientale e sanitaria, oltre che economica se sono corretti i calcoli secondo i quali in Campania sono stati spesi (fonte Garante degli appalti), 3 miliardi e 548 milioni di euro con 25 ordinanze emergenziali in sedici anni di gestione “straordinaria”. La pressione di formidabili interessi illeciti ha innervato la percezione e la capacità decisionale a tutti i livello facendone un problema insolubile, mentre varrebbero i 4 semplici comandamenti elementari indicati quasi cinquant’anni fa dall’Ue e riprese quasi venti fa dall’Ocse: primo, ridurre (soprattutto imballaggi e articoli usa e getta); secondo, riciclare, cioè recuperare in nuovi cicli produttivi i materiali di cui sono composti i rifiuti; terzo: recuperare energia da ciò che non si può riciclare: bruciando le frazioni combustibili residue, in impianti che possono anche non essere inceneritori; e gassificando la frazione organica; quarto, portare in discarica solo ciò che avanza.

Invece in tutto il Paese non sono state realizzate le politiche di riduzione a monte, quelle che dovrebbe essere adottate fin dalle prime fasi del ciclo di vita, dalla progettazione e produzione, poco si è fatto per quanto riguarda l’educazione dei cittadini, rendendo la raccolta differenziata una lodevole attività di nicchia, oltre che informando correttamente sulla portata e l’impatto delle tecnologie di trattamento.. Così la soluzione finale largamente preferita resta quella di togliere gli ingombri dalla vista, delegandoli alla malavita a prezzi economici e sociali elevatissimi o conferendoli in discariche perenni, magari in aree naturalistiche protette purchè pudicamente lontane da occhi e coscienze civiche.

Si abbiamo un “problema” col problema dei rifiuti, anche facendo finta che il nostro affogarvi non rappresenti una sfida perduta con la civiltà, con l’ordine pubblico, con la malavita organizzata e con una estetica del consumismo che crea imballaggi e confezioni sempre più invadenti, duraturi e ingombranti.
Viene da augurarsi che la crisi diventi una crisi del superfluo e dell’accumulazione. Che la cura contro l’emergenza siano la sobrietà e l’educazione civica. Perché quella dei rifiuti è una patologia della crescita insostenibile, una patologia particolare perché irride all’entropia, cresce, si gonfia e lievita senza soluzioni compensative, se non la riduzione. Ed è difficile da fronteggiare perché è collaterale all’accumulazione di beni, al consumismo all’illusorietà di un benessere alimentato dal possesso di prodotti inutili e ben confezionati.

Mio nonno, del quale peraltro pago l’inclinazione alla dissipazione, in tempi di maggiore austerità conservava invece ben ripiegate la carte dei pacchetti regalo e i nastri colorati. Oggi il 2 gennaio percorriamo per strada l’archivio dell’usa e getta dei riti familiari e anche delle loro emozioni, del consumo esercitato per nutrire la macchina produttiva grazie al superfluo mentre in altre geografie altri mancano del necessario. E Emma, tre anni, pensa che il tonno navighi in acque perigliose ben custodito nella sua scatoletta, perché non ci interessa conoscere i cicli di lavorazione che trasformano una risorse naturale in un articolo in mostra su uno scaffale. Nemmeno la sequenza di sofferenze e vite rubate che questi processi hanno comportato. E tanto meno il volume di rifiuti che si lasciano alle spalle. Per quanto ci sforziamo nessuno riesce a ridurre il suo rapporto con gli oggetti a una relazione funzionale, connotato da qualcosa di inspiegabile che esalta la ripugnanza che ci afferra per qualcosa che ha fatto parte della nostra vita, che ci ha nutriti e che è diventato una massa informe maleodorante. Che vogliamo nascondere come una vergogna e che dovremmo invece riportare nel circuito sociale come un responsabilità.

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