Ora io non sono un tecnico, ma ciò che la storia ha mostrato e Keynes dimostrato, è che i “risparmi” dello stato deprimono l’economia in misura maggiore dei risparmi stessi. Il pareggio di bilancio è perfetto solo quando libera risorse. Certo esistono delle spese inutili che andrebbero eliminate per far posto ad altre invece ” strategiche”. Liberarsi delle province, tutte e non solo quelle minime, per investire nella scuola sarebbe un’ottima idea e per questo non sarà perseguita.
In realtà i cosiddetti mercati dovrebbero temere la solvibilità dei Paesi che risparmiano, piuttosto che di quelli che spendono o almeno di quelli che spendono con oculatezza e per il futuro. Ma ciò non avviene perché – questa è un’opinione del tutto personale – il mito del pareggio di bilancio non ha niente a che fare con questioni di contabilità o di solvibilità, ma con la teoria neoliberista secondo cui l’economia si sviluppa solo in presenza di tassazioni basse e dunque occorre ridurre e azzerare il welfare che costituisce la spesa maggiore. E’ una teoria cominciata con la ridicola curva di Laffer e sfociata poi in un pensiero apertamente classista e oligarchico che prevede una piccola maggioranza di ricchi e molti poveri. L’incubo americano che ci è stato trasmesso nella scatola del vecchio sogno, ma con un contenuto repellente. Che il pareggio di bilancio sia solo un totem è dimostrato proprio dal fatto che mentre lo Stato dovrebbe limitarsi, i privati sono invece stati invogliati e spinti a indebitarsi fino al collo come polli da ingrasso di una crescita fasulla, infinita per definizione e creatrice di denaro falso creato non dal lavoro, ma debito stesso.
Ma la tassazione bassa non è per niente un motore: tutto lo sviluppo economico del dopoguerra sia in Usa che in Germania, Italia, Giappone e gran parte degli altri Paesi industriali si è sviluppata con un prelievo fiscale che fino a metà degli ’60 si aggirava attorno al 90% di aliquota massimale. Ciò ha permesso quella redistribuzione del reddito che è stata l’origine della crescita. Ma poi le contraddizioni stesse del capitalismo, la disponibilità di lavoro a costo bassissimo altrove, hanno indotto a un cambiamento maligno e radicale di cui oggi l’ Europa fa le spese.
Tutto questo rende ragione del fatto che la manovra, anzi molte manovre a questa parte, trascurano del tutto il più evidente dei provvedimenti da prendere: quello contro l’evasione fiscale che in Italia non è marginale, ma strutturale all’economia: è un modo surrettizio di minimizzare la tassazione, secondo i dettami liberisti, nonostante aliquote formalmente alte, ma che hanno effetto solo su chi non può sottrarsi, ossia sui dipendenti. I conti sull’evasione vanno dai 400 miliardi di euro ( comprensivi di elusioni e frodi) a una cifra di circa 200 miliardi fornita dall’Istat: il 18% del pil. Anche prendendo per buona questa cifra più bassa, anche scontando il margine fisiologico di evasione medio di Francia e Germania, ci sono almeno di 120 – 130 miliardi che mancano all’erario, sufficienti non solo per ogni tipo di manovre, per irrobustire un welfare che fa acqua da tutte le parti, ma anche per risanare un’economia che è in realtà gravemente danneggiata dall’evasione come si vede benissimo dai tassi di crescita più bassi di tutto il mondo sviluppato e non ormai da un quindicennio.
E questo rende conto del disastro del Paese, con altissime iniquità fiscali, poche risorse per un welfare già minimo rispetto ad altri Paesi, una corruttela fiscale che scoraggia gli investimenti dall’estero: un pezzo di centroamerica in Europa. E’ questo corpo estraneo che il governo vuole salvare con la complicità degli italiani che partecipano alla lotteria dei furbi. Un governo che è a sua volta estraneo alla stessa democrazia.
Così la manovra, questa o un’altra non ci salverà dal disastro. E a dirla tutta non è questa l’ Italia da salvare.