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Hare hare money money

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non so più chi in questi giorni ricordava la profezia di Giddens che per dare una rappresentazione dei nostri tempi, quelli della globalizzazione e della finanza sempre più immateriale, ricorreva all’immagine del carro di Dschagannath che secondo il rituale hindu una volta all’anno portando in giro come un’ostensione l’immagine del dio Krishna travolge e uccide la gente stordita e annichilita dalla fanatica estasi religiosa.
Non avevamo capito che il carro divino non guarda in faccia nessuno tra i fedeli accecati da un’aspettativa messianica. Che quel 10 per cento della popolazione mondiale che detiene e gestisce i tre quarti e più della ricchezza complessiva, non va alle processioni. Che non era plausibile pensare che qui, noi, fossimo esentati, noi ormai vittime senza scampo di quel rotolio, anestetizzati da anni di medio benessere, complici e schiavi di un sistema iniquo. La globalizzazione è solo un nuovo modo per definire la grande crescente ingiustizia che avvolge il mondo. La finanziarizzazione, con il suo imperio immateriale e illusorio, ha dissolto il nucleo di valori della società del lavoro e rende la ricchezza sempre più limitata e ricca e la povertà sempre più estesa e più povera.
Siamo stati gregari del solito formidabile disegno del capitalismo nelle sue nuove forme. Gregari a sinistra dove si sono persi i punti cardinali e si accetta tutto quello che una modernità regressiva e la sua cultura definiscono “nuovo” e desiderabile, con l’unico intento di restare a galla, di sopravvivere. Gregari a destra dove ci si muove all’ombra della forza del mercato. Da noi l’effetto è evidente e ieri si è manifestato con i propositi delle due marionette del monetarismo planetario, che vogliono farci accettare come naturale e inevitabile lo scambio di diritti contro lavoro anche per farci rassegnare allo scambio della politica contro l’economia.
Eppure una speranza c’è se il carro di Krishna fa piazza pulita anche di alcuni miti illusori. Quello che l’ineguaglianza sia confinata in fondo alla scala della società con i reietti, oggetto parimenti di esclusione e compassione. Quello che la diseguaglianza sia attribuibile solo a un deficit di istruzione, educazione, specializzazione, sicchè una economia “moderna”, ricca e dinamica possa risolverlo col tempo. Quello, il più ingiusto, della marcia in avanti: le distanze relative sono superate se tutti procedono guardando avanti con gli occhi rivolti al futuro.
Invece non sono più solo i sommersi a restare indietro ma anche quelle classi medie sulle quali si fondava la prosperità. I vantaggi dell’educazione e della preparazione si riscontrano nella scala dei redditi ma in forma marginale e trascurabile in un paese che erode irreversibilmente conoscenza e formazione. E quanto alla caduta di tante frontiere fisiche geografiche e ideali, si è rivelata una menzogna. Se c’è stata un’eta del benessere carica di promesse, appartiene ormai al passato di un presente carico di angosce.
Eppure è proprio in questo che risiede la possibilità di un risveglio, di una salvezza. Freud immaginava una capacità dell’individuo nella collettività di affrontare i mali della società, imparando a fare i conti con le patologie delle comunità civili, istinti, conflittualità, antagonismi, accettazione, incertezza, insoddisfazione, insomma le passioni tristi disegnate da Spinoza, quelle che generano tirannide. Fromm era convinto che esistono bisogni specifici e domande collettive di senso che si irradiano nel mondo e sono capaci di trovare risposte.
È un tempo il nostro nel quale alle risposte è legata la sopravvivenza.C’è da immaginare che a Oslo qualche giorno fa qualcuno abbia ricordato Peer Gynt e il suo “errore”. Inseguendo l’utile materiale si era accorto di aver perduto il suo e di essere diventato una cipolla: un insieme di strati sovrapposti senza nocciolo.
La dissennata ricerca della crescita illimitata, l’accumulazione di ricchezze spesso futili e inutili, l’ossessione dell’utile materiale ha dissolto il nocciolo, il senso della nostra vita e dei nostri sensi. Avere perso insensatezza forse, paradossalmente, ce lo farà ritrovare.
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