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Italia, il Paese col burqa

Francamente non saprei dire se il burqa sia la manifestazione di una società  integralmente maschilista o non sia invece una forma culturale maschilista come la nostra, ma espressa con modalità diverse. E sappiamo bene che  quella cultura può, a seconda del contesto, delle simbologie, degli immaginari sessuali, manifestarsi coprendo, ma anche scoprendo, nascondendo o invitando ad esporre. Semmai è l’obbligatorietà che denuncia una condizione femminile subalterna dentro una società dove però è l’idea globale di libertà ad esserlo.

Ma lascio da parte questo discorso perché esso farebbe a pugni con la grossolanità delle finalità leghiste e pidielline nel proporre una proibizione del burqa che, fatta passare come un atto di civiltà è  in effetti  pura xenofobia. Infatti essa rinvia esattamente a quella obbligatorietà che è comunque sempre maschilista.

Ufficialmente il disegno di legge, approvato dalla Camera, sembra opporsi alla costrizione e alla violenza di cui le donne musulmane sarebbero costrette nel mettere il velo integrale, ma è facile leggervi invece una ipocrisia profonda, perché di certo questa imposizione è assolutamente marginale rispetto al quadro di insieme che nemmeno è preso in considerazione. Un’ipocrisia che del resto opera e lotta insieme a noi tutte le volte che si parla di violenza sulle donne e non si prende mai in considerazione la fonte principale della stessa: mariti, compagni, partner e via dicendo, la famiglia insomma e non gli sconosciuti nel’ombra. La stessa che  è all’origine dei consigli di Alemanno alle donne sulla sicurezza.

Però c’è di più dentro tutto questo rimestare di pancia, c’è proprio il senso di irrealtà di una politica ormai giunta a raschiare il fondo. Intanto perché in un momento del genere andarsi ad occupare di casi che rimangono comunque abbastanza rari, è di per sé peregrino e poi perché, immaginando di ricavarne un qualche beneficio elettorale, si sacrifica sull’altare di identità e appartenenze sospette, anche il realismo più banale.

Sarkozy ha fatto la stessa operazione in Francia, sfruttando il tradizionale laicismo francese per fare l’ennesima cosa di destra e togliere fiato ai lepenisti. Ma finora avrà eliminato dal paesaggio parigino qualche centinaio di burqa, però ha dirottato verso Londra, dove non vi sono questi tipi di proibizioni, migliaia di ricche signore col volto coperto  che hanno fatto aumentare del 40% le presenze di compratori stranieri nella capitale inglese. E la stessa fuga dallo shopping di lusso avverrà, sia pure in proporzioni più modeste a Roma e Milano.

Ora basta guardare alle statistiche economiche  per vedere che i Paesi musulmani nel loro complesso pesano per un buon terzo sul nostro interscambio commerciale e divengono assolutamente maggioritari se estrapoliamo i nostri due maggiori partner Germania (13%) e Francia (11,5%). Per fare un esempio concreto il nostro interscambio con la sola Turchia è più o meno pari a quello con gli Usa.

Ora in queste condizioni fare una politica di sorda ostilità nei confronti di questa cultura è semplicemente fuori dalla realtà. Tanto più che questa ostilità si traduce poi in leggine carogna, ma non in un influsso culturale sull’immigrazione che arriva da quelle aree, semplicemente perché vi opponiamo un ridicolo integralismo da tavola fredda e da ampolle padane. Conseguendo l’unico risultato di allontanare senza ottenere alcun beneficio.

Come si vede non ho nemmeno preso in considerazione le questioni di principio, ma mi sono limitato a quel quel pragmatismo di cui le destre dicono di essere  portatrici. Ahimè anche quello invece latita, è una menzogna, una sorta di messaggio in codice che riguarda solo gli affari privati. Alla fine il burqa lo abbiamo indossato noi come Paese.

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