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Sotto il vulcano: la rivoluzione dell’Islanda

Mentre infuria una ventata di indignazione contro i privilegi della casta teleguidata sottopelle da alcuni media, mentre dei procuratori acquisiscono fascicoli sulle vicende della borsa come se fossero ignari che questo è il capitalismo o forse ispirati da qualcuno che vuole farci credere nel grande vecchio della speculazione, mentre il Paese si sta svegliando dopo molti anni di sonno, ma si rivela per quello che è, il luogo delle rabbie futili che con molta difficoltà divengono politica, altrove si fa la rivoluzione.

E nessuno lo dice. Ecco che cosa davvero mi indigna.

Un piccolo Paese, l’ Islanda si sta ribellando contro i poteri finanziari mondiali e contro la loro filosofia neoliberista. Due referendum hanno sancito il no alla restituzione dei soldi che che le banche locali avevano raccolto all’estero e perso nel turbine  della crisi dei titoli spazzatura. Una nuova Costituzione che li salvaguardi dalle mani adunche del capitalismo di rapina viene dibattuto sul web: insomma i cittadini rifiutano di far gravare su tutto il Paese e sulle future generazioni i costi assurdi dell’economia finanziaria e dei suoi trucchi. La conseguenza è che gli abitanti vivono molto meglio di quelli greci e irlandesi che invece si sono piegati ai “consigli”  molto interessati dell’Fmi.

La situazione islandese non è soltanto interessante in generale, ma ci riguarda molto da vicino perché, come ho già accennato alcune volte è molto probabile che nel giro di alcuni anni l’Italia si trovi nella stessa situazione: il nostro debito è troppo alto per poter essere davvero ripagato senza una crescita straordinaria per la quale non esistono i presupposti o senza un nuovo patto sociale e civile che abbatta un’evasione fiscale sette volte superiore a quella  di Francia e Germania, tanto per parlare nei nostri diretti vicini. E anche qui non sembra che la politica riesca a concepire un new deal dopo vent’anni in cui il “contratto” berlusconiano è stato proprio quello che non cambiasse nulla. Il declino etico e civile ed economico ne è stata la conseguenza e ora pensare di recuperare una situazione a cui molti si sono abbandonati, con indignazioni circoscritte per quanto sacrosante, è come invocare l’aspirina contro la tisi.

La vicenda islandese

Tutto è cominciato nel 2008 con la grande crisi finanziaria. Le tre principali banche del paese, che si erano inzeppate di spazzatura la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, fallirono e vennero nazionalizzate; il crollo della corona che perse l’85 per cento sull’euro, peggiorò drasticamente le cose tanto che alla fine dell’anno il paese dichiarò il default, il fallimento, togliendosi di dosso l’incubo che in questi anni stanno vivendo Grecia e Islanda.

Anche qui sono intervenuti il fondo monetario internazionale e in parte anche la Ue con un prestito, un po’ per costringere l’Islanda, retta da un governo di sinistra, a seguire le logiche imposte dal neoliberismo, un po’ per evitare che l’isola accettasse un prestito di 4 miliardi di euro dalla Russia. Tuttavia la concessione di questo aiuto peloso e certo non gratuito aveva come contropartita, non esplicita, ma concreta la socializzazione del debito, cioè doveva essere la popolazione a farsene carico.

Ed è allora che sono esplosi prima i malumori e poi una netta e irrevocabile opposizione. Del tutto giustificabile peraltro: gran parte del debito infatti era dovuto alla Landsbanki (oggi Landsbankinn)  che aveva lanciato una sorta di banca on line, tipo contro arancio, dal nome Icesave, grazie al quale aveva raccolto oltre 5 miliardi euro in Gran Bretagna e 1,5 miliardi in Olanda. Al momento della crisi non è stato in grado di garantire la restituzione del debito, bloccando così i conti. E’ per questo che Inghilterra e Olanda chiedono ai cittadini dell’Isola di pagare oltre 3 miliardi di Euro al tasso del 3,2% l’anno, per ripianare le perdite. Una parte del dovuto è stato scontato e il resto, secondo la proposta, dovrebbe essere scaglionato fino al 2046. Che sembra tutto sommato ragionevole, ma che è moltissimo per i 200 mila abitanti dell’Islanda. Ed è per questo che è stata rifiutata in un referendum, il secondo, dopo che era stato respinto un primo e più gravoso accordo di restituzione.

Tutto questo però non ha molto senso: perché la Landsbanki non solo era un istituto privato, ma in pratica il 95% della raccolta fondi avveniva al di fuori dell’Isola. Secondo quale logica dovrebbe essere il popolo islandese a pagare per gli errori o anche per i reati (sono stati accertati anche quelli) di banchieri privati che solo per ragioni storiche avevano la loro sede nell’isola? Per quel che ci riguarda potevano anche aprire la loro banca on line tramite filiali autonome o fiduciarie situate in qualsiasi parte del globo o anche una società ad hoc, tanto di fatto i clienti, quelli che venivano illusi con ottimi tassi di interesse, erano fuori dall’Islanda. E anche i prodotti venduti non avevano nulla a che fare con la terra dei vulcani, ma con quel cavernoso infero di soldi fasulli che girano per il mondo.

Però proprio questo è l’ideologia biforcuta del neoliberismo: uno stato ridotto al minimo, ma responsabile dei disastri compiuti dai privati. E naturalmente dicendo stato s’intendono i cittadini e soprattutto i ceti più poveri che senza mai aver acquistato un titolo si trovano a pagare per i benestanti che stanno a duemila chilometri di distanza. Le ragioni sociali e di convivenza non hanno alcun posto in questo universo la cui ragione di esistere è solo l’avidità.

Giustamente gli islandesi si sono opposti con tutte le loro forze tanto più che le leggi internazionali permettono a ogni stato di agire in difesa dei propri interessi vitali. Anzi sono andati molto oltre i due no referendari: vogliono a grande maggioranza una nuova Costituzione su base completamente popolare che finalmente metta al sicuro i singoli cittadini dai predoni della finanza.

Certo le pressioni continueranno, ma,  come è accaduto anche per altri Paesi, i creditori dovranno ridurre e di molto le loro pretese se vorranno vedere qualcosa. Ma soprattutto cercheranno, come di fatto sta avvenendo, di  non far conoscere le smagliature a cui sta andando incontro il sistema. Del resto la perdita fa parte del rischio dell’investimento che in questo caso, come per la Lehman Brothers e tante altre banche, non dipende da questo o quel Paese ma da istituzioni private. Che poi i governi si preoccupino di tutelare gli istituti di credito privati, può essere una scelta, ma non certo obbligata. Anzi direi, ma questa è una mia personale opinione, che tale garanzia  dipende non soltanto dall’opaco intreccio di poteri nel quale spesso lo Stato è perdente, ma anche da un fatto tecnico: senza una tutela pubblica le banche dovrebbero offrire interessi molto più alti a chi presta loro i soldi. Cioè a noi tutti.

E L’Italia?

Al contrario di quando si è detto e scritto la copertina dello Spiegel è in realtà dolente: Ciao bella , declino del Paese più bello del mondo. Il sarcasmo è dedicato al protagonista del declino stesso, al Gondolier Berlusconi

Non ci facciamo illusioni: come ho già detto prima l’enorme debito pubblico, difficilmente potrà essere ripianato senza ridurre e di molto il tenore di vita di due o tre generazioni. E anzi proprio la riduzione del tenore di vita renderà probabilmente inutili i sacrifici. Quindi l’idea di una ristrutturazione del debito e dunque di un default morbido prima o poi arriverà al tavolo delle nostre paure. D’altro canto solo il 13% dei titoli di stato appartengono a cittadini italiani, il resto è in mano per gran parte alle banche nostrane mentre una certa quota appartiene ad investitori stranieri, tra cui spicca l’immancabile Vaticano.  Quindi una ristrutturazione del debito sarebbe più che possibile, salvaguardando quel 13 per cento di cittadini italiani e ricontrattando con banche  e investitori esteri, soprattutto là dove è possibile intravvedere qualcosa di poco chiaro. Certo non sarebbe una passeggiata, ma nulla in confronto alla macelleria sociale di cui oggi vediamo appena appena un inizio.

Nessuno, tanto meno il neoliberismo, ha interesse a suicidarsi mandando in fallimento un Paese del peso dell’Italia, oltre al fatto che da un default duro gli investitori rischierebbero di non ricavarne nemmeno un euro: spazio per la contrattazione ce n’è, tanto più che in gran parte sarebbe una contrattazione casalinga. E certo dare un esempio di democrazia e di determinazione come l’Islanda, piuttosto che vivere un tempo indeterminato sotto ricatto, nella disuguaglianza, in preda a poteri forti, non sarebbe poi così spiacevole. Almeno non vedremmo le copertine di Berlusconi gondoliere.

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