E’ strano, tutto sembra razionale e imprescindibile nell’emergenza: siamo in pericolo, votiamo la manovra necessaria, anche se iniqua, perché i mercati non sentano odore di sangue e non si scatenino ancora di più. Non c’è nulla come la vicinanza  del disastro che lasci la parola ai meccanismi tecnici, giusti o sbagliati che siano e metta in secondo piano la politica.

Eppure tutto questo è il comma 22, l’assurdo che si precipita nelle nostre vite, anzi una scatola cinese di commi 22, uno dentro l’altro. Nel nostro caso, nel caso italiano come di altri Paesi, la tecnica è fornita da quegli organismi finanziari e monetari come Fmi, Banca Mondiale e Bce: sono loro che consigliano e impongono come cura una riduzione dei debiti pubblici ad ogni costo, considerandola come  la panacea di tutti i mali.

Ma è come attaccare le sanguisughe a un anemico: perché i sacrifici imposti, soprattutto ai poveri, deprimono il Pil, probabilmente anche più di quanto non diminuiscano il debito e dunque più che una soluzione si tratta alla lunga di una mazzata che costringe a nuovi sacrifici. Del resto questa medicina non è che una prosecuzione di quella adottata dal neoliberismo finanziario negli anni ’80: potendo spostare dovunque capitali e dovunque reperire lavoro a basso costo, si poteva scardinare il welfare dal momento che esso non era più un fattore di sviluppo, ma di indebitamento. Il rapporto tra capitale, investimenti  e stabilità sociale che aveva costituito il modello del dopoguerra, era diventato obsoleto poiché si poteva fare più denaro attraverso il denaro e dunque non era necessario reinvestire più di tanto nelle attività per alimentare il ciclo.

Naturalmente se l’investimento prende altre strade la produttività diminuisce e non è affatto strano che il picco massimo si sia avuto in Usa nel ’71, quando è cominciata la grande avventura  del capitalismo finanziario e in Italia nel ’76. E dunque si capisce perché i debiti pubblici finiscono per lievitare proprio mentre si tenta di contenere le spese attraverso la contrazione di diritti e di salari. E crescono in maniera enorme se la diminuzione di investimenti e di produttività si scontra con gli effetti globalizzanti della finanziarizzazione.

Dentro questo assurdo si è inserito un ulteriore comma 22 tutto italiano perché l’arretratezza della nostra società, i suoi vizi prima blanditi e poi apertamente promossi dal berlusconismo hanno conferito a questa dialettica dell’insensatezza un particolare vigore che ha finito per azzerare la crescita e farci ritrovare con una produttività a – 1,5 rispetto al + 6 di 35 anni fa: il che tenendo conto dell’enorme sviluppo tecnologico avutosi nel frattempo è un vero e proprio miracolo in negativo.

Ciò che voglio mettere in evidenza è che le logiche di salvezza proposte non hanno senso. Non solo: che il paradigma del neoliberismo in sé è contraddittorio e non offre soluzioni tecniche per uscire dai problemi che esso stesso ha creato. L’unico modo di uscirne, come accadde dopo la crisi del ’29, è la politica che al contrario dell’economia e dei suoi organismi statutari o delle sue ideologie autoreferenti, può proporre delle alternative, un nuovo modello.

Tuttavia questo può essere fatto prendendo le cose per tempo, senza trovarsi di fronte al baratro imminente che impone misure  forse ancora peggiori della crisi stessa. E allora non si può che essere “responsabili” e con ciò stesso dare una mano al disastro. Un altro comma 22, probabilmente l’ultimo di un’epoca.