Questi giorni dannati, questi giorni di tragedie e di farse, di umanità disperata contrapposte al gracidio degli imbecilli, svelano la malattia, la nevrosi da cui siamo affetti: il rifiuto di capire. Quel sonno perverso e malato che serve a fuggire le fobie e il senso di inadeguatezza. Un lungo sonno della ragione, costellato di piccoli sogni inutili e bugiardi.

Non sappiamo nulla del mondo che si muove proprio di fronte a noi, del mediterraneo che cambia, degli stivali della storia che rimbombano dovunque, non vogliamo nemmeno saperlo, riusciamo a cogliere queste cose solo attraverso la crisi di panico per qualche migliaio di migranti che nemmeno sappiamo gestire. E nel dormiveglia che esclude domande, pensieri, progetti, speranze, ascoltiamo le bugie, le patetiche farneticazioni sulle ville e sui casinò come se fossero verità salvifiche. La pillola che ci stordirà ancora di più.

Così come in precedenza ci è parsa salvifica la scelta di legarsi mani e piedi a Gheddafi, in quella specie di danza berbera a cui ci siamo prestati. Salvo andare alla guerra quando si è capito che il tirannello era spacciato.

Abbiamo persino scambiato una cartella a4 di Marchionne come un piano industriale di rilancio, onirica sintesi del fallimento di una classe dirigente decotta. Fossimo svegli l’avremmo considerata per quella che era, chiarissima nella sua povertà: l’assenza di un piano. La fuga preparata e messa in atto.

E scambiamo le torbide, inconcludenti, dannose mosse di Tremonti come se fossero un distillato di scienza finanziaria, mentre ci castriamo il futuro con le nostre stesse mani. La società della conoscenza che era stata la menzogna madre, incubata nel liberismo, è stata uccisa precocemente, prima ancora che si rivelasse come un inganno. Ci rimane la società delle “conoscenze”, dei santi in paradiso e degli  aiutini.

Non vogliamo capire perché questo ci costerebbe la fatica di cambiare anche se il mondo non ama i gattopardi e i vasi di ferro ci circondano. Non vogliamo sapere perché non vogliamo scegliere. Perché non sappiamo affrontare il divorzio con la nostra decadenza.

E in questo vuoto, le cene eleganti, il casinò, il processo breve, le ruberie dei vlasti, i panini per applaudire, la svendita di dignità televisiva o reale ci paiono materiali buoni per costruire e sostenere il muro dentro il quale ci nascondiamo.

Ci va bene il ragionamento per cui se uno ha molti processi è un perseguitato, cosa che viene buona per decina di boss mafiosi, una logica che a rigore fa dei pregiudicati i cittadini migliori, anzi degli eroi. Ci piacciono persino i comici che ci propongono le macchine ad acqua e adesso dicono che non possiamo accogliere i profughi perché l’Italia è sovrabitata: il ragionamento del bar dietro l’angolo che non tiene conto che siamo sovrabitati da anziani. La Germania è ancora più sovrabitata, ma per lo meno non ha  grilli parlanti con troppi grappini in corpo, troppo cinismo ipocrita. Cosa che lo accomuna del resto a molta satira da salotto e da teatro.

La voglia di non vedere ci fa perdere la più elementare serietà, ci manda a balia da ogni tipo di bugie e di sciocchezze, dentro un’irrilevanza e un ridicolo di cui non ci accorgiamo. E così siamo anche capaci di lamentarci che l’Europa non ci aiuta sui migranti, quando siamo stati proprio noi, in prima fila, a volere che tutte le politiche o meglio le non politiche d’immigrazione rimanessero agli stati nazionali.

Nel sonno russiamo e diventiamo molesti. Molesti anche a noi stessi che parliamo di identità culturale senza averne, di dignità dopo averla venduta al mercato delle illusioni, che parliamo di società senza vedere altro che noi stessi. E contiamo come l’avaro quello che possediamo. Ciò che andrà comunque perduto se il sonno nevrotico continua.

Così accade che il Paese “è  narrato da uno sciocco, pieno di strepito e di furore, ma senza significato alcuno”.

Chi può più dubitare della leggenda che  Shakespeare era italiano?