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La fine delle graziose illusioni

Anna Lombroso per il Simplicissimus

La tragica combinazione di eventi estremi e incontrollati che si consuma al rallentatore in Giappone ha un effetto secondario dirompente: ci costringe ad interrogarci sull’evidente sconfitta di chi pensava che lo sviluppo, nel quale si agitano sia pure con un certo disordine, progresso e modernità rendesse inevitabile il prezzo da pagare di una iniquità, resa meno cocente da un capitalismo ben temperato. Rendendo “sopportabile”, soprattutto per noi nati dalla parte in – giusta – in quanto privilegiata – del pianeta, l’ineguaglianza crescente della distribuzione del reddito e l’esaurirsi delle risorse del pianeta, che si colloca nel generale impoverimento dell’ambiente e dei suoi abitanti, come in un teatro dove si consuma la tragedia umana di nuove schiavitù, bestiali appetiti e fame millenaria, accumulazioni violente e irrispettose dei diritti e miserie irriducibili.
Forse ci era sembrato che un capitalismo più aggraziato temperasse, o forse celasse educatamente ai nostri occhi, l’ingiustizia, e che tecnologia ed applicazioni scientifiche su larga scala comportassero ricadute benefiche diffuse talmente formidabili da rendere l’imposizione di limiti un optional (confessionale se non romantico, da anime belle).
Abbiamo perdonato a un capitalismo “corretto” che suonava Mozart e generosamente ce lo lasciava ascoltare, il paradosso di aver dato forma a una società sempre più ricca, che assiste a un costante peggioramento del suo benessere sociale, secondo la formula efficace di Galbraith: opulenza privata in pubblico squallore.
Alcuni di noi si sono adagiati nella illusoria convinzione che le forze della finanza e del mercato, le stesse che avevano generato il prodigio seppur squilibrato della crescita, potessero contribuire alla realizzazione di un sistema di cooperazione mondiale, alla creazione di un ordine politicamente concordato, alla modificazione anche morale di un clima adatto a ridurre le disuguaglianze e a preservare l’ambiente intorno.
Lo choc nucleare ci costringe a rivedere tante comode convinzioni e la crisi del Mediterraneo a rivisitare tante pacifiche certezze. Il gigante della disuguaglianza non è disponibile ad accontentarsi dei sacrifici compiuti per tenere buono un progresso che, a discrezione del profitto, avvantaggia o penalizza e che non si compiace neppure degli effimeri aiuti che dovrebbero ipocritamente rimuovere dalle nostre menti la visione di disperazioni, peraltro molto vicine e ormai minacciose.
Sarà che a forza di esportare modelli di benessere e democrazia cominciano e scarseggiare qui da noi, sarà che a forze di effettuare missioni umanitarie non sappiamo più essere umani. E nemmeno civili. Ma certo è fallito il progetto o meglio la piccola moderata utopia di trattare le disuguaglianze riducendole non attraverso l’omogeneizzazione dei modelli di sviluppo bensì mediante la loro diversità, la differenziazione e la declinazione liberamente e autonomamente scelte. Secondo regole autodeterminate fondate sulla libera utilizzazione delle sue risorse di lavoro e intelligenza, sulla tutela delle tradizioni e delle identità storiche, sulle preservazione dell’ambiente naturale e delle risorse, sulla riduzione delle disuguaglianze economiche e civili.
Per anni ci hanno fatto intendere che è meglio essere disuguali per diventare felici e che consumare beni e risorse all’infinito ci rendesse invulnerabili. Abbiamo per fortuna perso questa sfida mortale e siamo in tempo per porre riparo.
I “limiti” alla crescita indotti dalle esperienze e dalla ragione non sono una catastrofe mentre può essere catastrofico non porli. Svilupparli è il modo civile, morale ed umani di crescere: nel senso della solidarietà, della responsabilità, della cultura, della democrazia.

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