Qualche giorno fa mi sono lasciato andare ad una difesa dell’ Utopia, uno dei patrimoni che la sinistra ha svenduto, pensando che si trattasse di moneta svalutata dal crollo del comunismo. Magari sarà parso ai più un cero votivo e ai duri e puri rimasti una digressione se non un offesa.

Voleva essere tutt’altro, un’antidoto alla strategia del capitalismo finanziario che da 40 anni ha sostituito in gran parte dell’Occidente quello produttivo e che ha visto come suo caposaldo ideologico, la progressiva eliminazione della speranza e della progettualità sociale. La negazione della terza dimensione della storia. Ricordate che all’indomani della caduta di Berlino fu detto che era la “fine della storia”?

Poco importa qui il contesto dottrinale, peraltro molto debole, per non dire ingenuo, che contraddistingueva Francis Fukuyama, autore di questa espressione mediaticamente felice: essa era già da un decennio nell’aria, suggerita a mezza voce da un contesto economico che aveva bisogno di un eterno presente per poter liberamente agire.

Aveva bisogno che la realtà globale divenisse statica . Che fosse posta fine alla dialettica comunismo- capitalismo e che questo divenisse il vincitore ultimo senza altre possibilità di ideazione e di elaborazione politica. Così che l’unico avvenire residuale fosse quello dei singoli.Con l’avvento della finanziarizzazione dell’economia, la decadenza della fabbrica, la possibile creazione di denaro attraverso il denaro, l’esercito di manodopera disponibile in Asia,  l’avvio di una mutazione culturale e antropologica era a portata di mano.

Naturalmente la cornice ufficiale era quella di un mantenimento ed espansione della democrazia rappresentativa, quando invece proprio la trasformazione delle persone da produttori a fruitori, negava le basi stesse sulle quali i sistemi democratici erano nati. Il riferimento era soltanto al trompe l’oeil della democrazia, quello che come abbiamo poi visto si può anche pensare di esportare.

E” naturale che se l’unico avvenire congetturabile è quello personale, si avrà prima una frammentazione e polverizzazione sociale, la resa alla bussola degli egoismi e poi la riaggragazione della polvere attorno a luoghi comuni, a una cultura infantile, assertiva e priva di dialettica e che può essere facilmente catturata dal populismo.

Non c’è da meravigliarsi che in un Paese arcaico, già di suo ancora sospettoso della libertà, abituato alle doppie morali e incerto sull’etica del lavoro, tutto questo attecchisse come fuoco sulla paglia, si personalizzasse e acquisisse anche caratteri farseschi e paradossali. Quelli che vediamo oggi frangersi nella più sfacciata corruzione, nella ipocrisia più oscena e incredibile. Come quella delle madri mezzane che sostengono di aver allevato le figlie alla luce del Vangelo, mentre invece erano luci rosse. Il che non esclude che si becchino pure qualche augusta benedizione.

Ma non c’è nemmeno da meravigliarsi se la reazione più forte e più decisa al presente ideologico del liberismo nella sua forma italiana degenerata e comica , stia venendo proprio dalle donne. Non perché rivendichino l’utopia che è stato il punto di partenza del discorso e non soltanto perché la situazione in cui si è lasciato cadere e decadere  il Paese le colpisce in prima persona in molti modi, ma anche perché la maternità le rende quasi biologicamente più predisposte all’idea di futuro e di ambiente sociale. Nonostante esse stesse ne siano state spesso escluse come persone e invitate solo come riproduttrici.

So che questo discorso mi alienerà molte amicizie e tuttavia mi affascina questa idea delle donne come anti Fukuyama e contestatrici naturali della scuola economica di Chigaco.  Il che forse non ha molte connessioni col femminismo o con l’8 marzo e  nemmeno con la politica in senso stretto. non è neanche un’ Utopia. Forse è solo un omaggio a ciò che si vorrebbe essere.